Dalla parte delle ragazze

La Giornata contro la violenza sulle Donne è caduta nel giorno del mio compleanno e – anche per questo – da qualche anno questa ricorrenza assume per me un carattere particolare.

L’altra sera, davanti alla torta, si parlava di uomini e donne, morosi e morose, in tono molto scherzoso (del resto, con due ragazze adolescenti forse meglio sdrammatizzare!). §Katniss, la ragazza più grande, ha detto candidamente: “no no, meglio non averlo il moroso… §Luisa ce l’ha ed è sempre lì che dice che non può dire questo e fare quell’altro, perché al suo moroso dà fastidio e dispiace”.

Ora, se si tratta di “non posso fumare/bere perché al mio moroso dà fastidio” tanto meglio… però mi è rimasta in testa, quella frase. Se già a 14 anni ci sono ragazze che pensano di non poter fare qualcosa perché “lui” non approva, siamo più indietro di quello che credevo, in merito ai diritti delle donne.

Siamo stati tutti adolescenti, insicure/i e bisognose/i di approvazione, perciò bisogna anche mettere i comportamenti nella giusta prospettiva. Però davvero mai abbassare la guardia, mai dare per scontato che abbiamo conquistato già abbastanza e che siamo “arrivate”. Perché basta guardarsi intorno per capire che così non è. Basta guardare il tutorial della “spesa sexy”… una cosa squallida e inutile, che però è stata pensata e ritenuta adatta ad andare in onda, nel 2020, sulla prima rete nazionale.

Arrivata alla mia “veneranda” età, alcune cose le vedo con più chiarezza. Mi rendo conto che paradossalmente la mia infanzia è stata più libera di quella di tante bambine di oggi, meno condizionata dalla pressione della crescita veloce che c’è adesso. Già alla primaria ci sono bambine che si fanno le unghie dalla nail artist, che vanno a scuola truccate e vestite come delle piccole cubiste, che mettono maglie della Decathlon con su scritto “only for girls”, che hanno oggetti di uso comune esclusivamente color rosa, tutto rosa, tutto stucchevolmente rosa. Quando ero piccola, tanto per dire, Hello Kitty aveva una bellissima salopette azzurra e un fiocchetto rosso sull’orecchio. Ora tutto rosa. Come la serie delle principesse Disney.

Per non parlare dei vestiti… possibile che sia così necessario agghindarle come delle piccole rockstar? Perché non possono essere semplicemente bambine? Perché usare subito reggiseni (a 5 anni…), magliette e top che lasciano la pancia scoperta, shorts ascellari… mi sembra un tentativo di farle sentire più adulte che può essere anche molto pericoloso. Non lo trovo francamente un segnale di libertà del tipo “ecco, adesso posso vestirmi come voglio e mostrare quello che voglio”. Non a 6, 8, 10 e nemmeno a 12 anni. La vera libertà non passa per una scollatura o per una minigonna, non può essere così.

Né ritengo che l’approvazione di qualcuno (soprattutto un nostro partner) debba essere condizionata alla sottomissione ai desideri e alle aspettative altrui. E questo bisogna farlo capire ai nostri ragazzi e ragazze, perché si arrivi prima possibile a non dover parlare ancora di violenza di genere, o di violenza in generale.

Immunità di genere

Mi ha sempre fatto un effetto strano dire “ministra”, “architetta”, “sindaca”… insomma, girare al femminile sostantivi che ho sempre sentito declinare al maschile. Perché mi infastidisce sottolineare il genere di chi fa una determinata professione o ha un certo ruolo, penso che dovrebbe interessarci l’operato di queste figure, la loro competenza effettiva, non il loro sesso o peggio le loro preferenze in merito… sono tutte questioni private che dovrebbero essere rispettate come tali.

Studiando per l’esame di antropologia culturale (per i famigerati 24 cfu per l’abilitazione all’insegnamento) ho potuto però riflettere in merito e – se non cambiare idea – comprendere come mai alcuni/e fanno una questione di principio nel sottolineare il genere, arrivando a sostituire la desinenza con * (tipo alunn*, anche se questa soluzione mi sembra davvero stilisticamente orrenda, pur se neutra).

Mi ha colpito a questo proposito il messaggio del libro “Etnografie in bottiglia – Apprendere per relazioni nei contesti educativi” di Roberta Bonetti (Meltemi Editore). Il volume ha ottimi obiettivi (parlare di antropologia ai non addetti ai lavori), che però vengono sconfessati da una costruzione molto farraginosa e confusionaria, con un filo del discorso che non si sviluppa in maniera lineare ma salta di palo in frasca e francamente rende il testo piuttosto oscuro e complicato; tuttavia il messaggio e l’esperienza che racconta sono molto interessanti. In particolare all’inizio si dice che gli oggetti condizionano il nostro modo di vivere in maniera molto profonda: non solo, più sono “invisibili” e più condizionano la nostra vita. Perciò, secondo l’autrice, il design dovrebbe accompagnarsi all’antropologia per arrivare ad influenzare la vita delle persone in senso positivo. Pensiamo ad esempio ad una cartina: i punti cardinali, i simboli e i colori sono generalmente frutto di convenzioni (quindi astratti) ma vedere una cartina con il sud in alto e il nord in basso ci disorienta, ci sembra sbagliata. In ultima analisi, condiziona il nostro modo di vedere la realtà e ce ne accorgiamo solo in presenza di cambiamenti. Prospettiva molto interessante che non avevo mai considerato.

In questo senso pensavo alla famigerata immagine dell’app Immuni: con la donna alla finestra con i braccio il bebé e l’uomo alla finestra accanto al computer. Mi sono sentita davvero mortificata anche io, che ho sempre cercato di andare al nocciolo delle cose, senza fermarmi alle immagini. Ma stavolta era davvero palese l’incongruenza.

app immuni

Perché occuparsene, quando abbiamo ben altri problemi? Perché è un’idea dura a morire: la donna si occupa della famiglia e l’uomo lavora per mantenerla. Quello che sottolineava anche Elena Gianini Belotti in “Dalla parte delle bambine” – scritto negli anni Settanta ma in alcune parti ancora attuale. I maschi lavorano e vivono avventure fuori casa, devono essere attivi; le femmine stanno a casa e in famiglia, se lavorano non si sa bene cosa facciano e comunque devono occuparsi anche della casa. La realtà non era sempre quella nemmeno quarant’anni fa, però la percezione comune continua ad essere la stessa, non importa quanti Nobel e quante donne si affermino nel mondo del lavoro, sono eccezioni e bisogna additarle come tali… appunto “ministra”, “sindaca”, “architetta”. Eppure in qualche modo capisco questa necessità: per diventarlo hanno dovuto anche combattere contro un pregiudizio che le considera comunque meno capaci di svolgere questi ruoli, tanto che è quasi un risarcimento femminilizzare le funzioni.

Torniamo all’immagine. Che sembrerebbe innocua. Ma che è ingiusta perfino nei confronti degli uomini. Penso al mio compagno, ogni giorno ore davanti al pc con sue figlie a dare una mano, al telefono per questioni di lavoro, ai fornelli per pranzo e cena – mentre io sono al computer a fare lezione, correggere compiti, preparare lezioni, a riunione per la scuola, a studiare per gli esami… con una montagna di roba da stirare che mi attende minacciosa in camera. Oppure a un mio caro amico, chiuso in un appartamento senza balcone in una grande città, con un bimbo di due anni che reclama attenzione e affetto e i suoi genitori (soli con le famiglie in altre regioni) che devono trovare equilibri impossibili per tenere insieme tutto – compresi loro stessi – con la preoccupazione di conservarlo, un lavoro, alla riapertura… no, non era possibile stare zitte. 

Per non parlare delle infermiere, delle dottoresse, dei loro colleghi maschi… potrei continuare all’infinito, di tutti noi che abbiamo sopportato questo periodo assurdo e abbiamo fatto del nostro meglio, qualunque fosse il nostro sesso. Quella era solo un’immagine, vero. Ma più una cosa è invisibile e meno ci rendiamo conto della sua presenza e del fatto che la stiamo usando; essa influenza la nostra vita e le nostre scelte anche se in apparenza “è soltanto un’immagine”. Vista così, perde la sua neutralità e diventa uno strumento di condizionamento potente proprio perché in apparenza innocuo.

Insomma, basta stereotipi. I lavori non hanno genere.

La condizione delle donne nei Paesi dell’allargamento: l’altra metà del cielo allo specchio

La condizione delle donne nei Paesi dell’allargamento: l’altra metà del cielo allo specchio

venerdì 27 aprile 2007 14.01

Ripubblico qui una breve ricerca che ho fatto nelle ore di tirocinio quando ero all’università… sperando possa essere utile a qualcuno!

1 – Introduzione

Il 1° maggio 2004 si è “festeggiato” l’ingresso a pieno titolo nell’UE di 9 Paesi dell’Europa Orientale; le virgolette, ahinoi, sono d’obbligo, perché, contrariamente a quanto auspicato dal mondo politico, questa data per molti ha assunto tinte fosche, o perlomeno ha destato molte perplessità a livello popolare (hanno economie deboli che assorbiranno risorse, ci saranno ingressi massicci di clandestini, e così via).

Questa diffidenza ha varie cause, la più importante delle quali è sicuramente di origine storica: la “forma mentis” dell’epoca della “cortina di ferro”, infatti, non è ancora scomparsa, sebbene oggi con una semplice carta di identità si possa arrivare dall’Oceano Atlantico al Lago dei Ciudi, al confine tra Estonia e Russia. Come ai tempi dell’Impero Asburgico, nella mente dell’europeo “occidentale” l’Asia inizia già al confine con l’Austria e, oltre la linea immaginaria che congiunge la foce dell’Oder alla linea delle Prealpi Giulie, gli scenari sociali, politici, economici e culturali per noi hanno un sapore già marcatamente “orientale”.

Al di là dei luoghi comuni, bisogna tuttavia ammettere che in ogni campo della vita civile vi sono differenze più o meno marcate tra i Paesi dell’Europa occidentale e orientale. Ciò però non significa che questi ultimi siano sempre in una posizione svantaggiata rispetto ai primi, tutt’altro: ad esempio, nel campo accademico la gestione socialista è stata, se non lungimirante, perlomeno positiva, permettendo il raggiungimento di livelli di scolarizzazione molto alti (in Ungheria si parla addirittura del 99%) e la formazione di centri d’eccellenza che molti Paesi europei farebbero bene ad invidiare.

Nel campo delle pari opportunità, invece, il panorama è caratterizzato da luci e ombre: vero è, tuttavia, che l’applicazione del principio egalitario socialista ha fatto compiere un salto notevole a quei Paesi nei quali le donne non avevano tradizionalmente molte possibilità di carriera e di partecipazione alla vita politica. Vi erano leggi che sancivano la parità giuridica dei sessi (con qualche eccezione per quanto riguarda lavori pericolosi particolarmente pesanti, riservati agli uomini), ma esse non venivano applicate sempre con rigore, poiché, come accade nella gran parte del mondo, vi erano palesi contrasti tra i principi enunciati e la mentalità imperante, che rimaneva ancora prevalentemente maschilista. La transizione democratica degli anni ’90 ha messo ancor più in evidenza queste contraddizioni: con il venir meno della “morale socialista” e delle regole di vita che proponeva, la Weltanschauung tradizionale ha nuovamente preso vigore, facendo talvolta registrare un regresso dal punto di vista dell’emancipazione femminile.

Il processo d’integrazione europea ha risvegliato l’interesse per questa particolare problematica, poiché la garanzia dell’uguaglianza e la lotta alle discriminazioni sono due requisiti fondamentali che i Paesi devono soddisfare, per poter avviare i negoziati d’adesione all’UE.

Vediamo ora come si è sviluppato il cammino legislativo volto al raggiungimento di questi obiettivi.

2 – Norme comunitarie sulle pari opportunità

Gli sforzi legislativi per raggiungere un’effettiva parità fra i sessi in Europa hanno inizio in Europa alla fine della prima guerra mondiale (Trattato di Versailles, 1921); tuttavia, poco o nulla venne fatto per applicare concretamente i principi enunciati a quell’epoca – al di là dello sfruttamento della forza lavoro femminile durante il periodo bellico, ma ben difficilmente può essere definita “emancipazione”. Ad ogni modo, è proprio nel periodo tra le due guerre che in alcuni Stati il diritto di voto viene esteso anche alla popolazione femminile (in Danimarca, Austria, Estonia, Polonia, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Svezia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lituania, Irlanda, Regno Unito e Spagna; in altri Paesi questa concessione diventerà definitiva solo dopo il ’45, mentre in Finlandia il suffragio universale diventa realtà già nel 1906!).

Bisogna però attendere il secondo dopoguerra, e più precisamente il 1957, perché il problema della parità retributiva tra uomo e donna compaia nuovamente in un trattato internazionale: l’articolo 119 del Trattato di Roma, con il quale nasce il Mercato Comune Europeo, impegna infatti gli Stati membri ad intraprendere azioni legislative efficaci mirate a raggiungere quest’ambizioso obiettivo.

Interventi più concreti si hanno negli anni Settanta, con l’approvazione di un Programma di azione sociale (21 gennaio 1974) che, tra i suoi obiettivi, ha la piena occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e il maggior coinvolgimento dei cittadini nelle istituzioni europee. Vengono inoltre emesse tre direttive mirate all’avvicinamento delle legislazioni in materia di parità retributiva (dir. 75/117/CEE), parità di accesso alla formazione e al mondo del lavoro (dir. 76/207/CEE) e di sicurezza sociale (dir. 79/7/CEE).

A questo punto viene sviluppata anche una politica comunicativa più efficace e capillare per far conoscere alle donne il processo di costruzione europea, le iniziative comunitarie a loro rivolte e per stimolarle ad adoperarsi attivamente per il riconoscimento dei loro diritti.

Nel 1982 la Commissione europea approva il primo Piano d’azione sulle pari opportunità (che sarà seguito da altri 4 entro il 2000); sempre negli anni Ottanta vengono emesse direttive mirate a tutelare il lavoro femminile, la sicurezza sociale, la parità di trattamento economico. Accanto alle iniziative legislative nascono poi le RETI, ovvero dei gruppi di lavoro che si dedicano allo studio di problematiche specifiche riguardanti le pari opportunità – Donne nell’occupazione, Diversificazione delle scelte professionali, Azione positiva nel settore privato, Gruppo di lavoro sull’alta funzione pubblica, Comitato direttivo per la parità delle opportunità alla radio e alla televisione, la rete IRIS sulla formazione professionale.

Alla fine degli anni Ottanta, con la caduta del Muro di Berlino, l’Europa ricomincia a “guardare ad est”, ovvero a prendere in considerazione l’ipotesi di accogliere al suo interno le ex – Repubbliche popolari (una di esse, la Germania orientale, viene inglobata di fatto già nel 1989). I problemi da risolvere sono tuttavia parecchi: oltre al risanamento dell’economia e alla transizione democratica, ai paesi candidati si chiede anche una maggiore tutela delle minoranze e il rispetto rigoroso dei diritti umani e politici, inclusi quelli delle donne.

Tuttavia, non sempre le dichiarazioni d’intenti sono state messe in pratica, e le contraddizioni che caratterizzavano la condizione femminile in questi paesi sono ancora diffuse ed evidenti.

3 – La legislazione per le pari opportunità nei Paesi dell’Europa Orientale

Nelle Costituzioni di quasi tutti gli Stati entrati nell’UE con 1° maggio 2004 è detto esplicitamente che uomo e donna hanno pari diritti e devono avere pari opportunità, soprattutto in campo lavorativo. Tuttavia, sebbene formalmente questi Paesi abbiano recepito perlomeno le disposizioni base dell’UE in materia, la realtà quotidiana è ancora piuttosto difficile per le donne, che spesso non hanno gli strumenti o le conoscenze per far valere i loro diritti in caso di discriminazioni.

In alcuni Stati vi sono delle limitazioni per quanto riguarda l’accesso a mestieri potenzialmente pericolosi perla salute e la funzione procreativa delle donne (Bulgaria, Ungheria), oppure mancano tribunali del lavoro o sindacati abbastanza forti da intraprendere azioni efficaci per la tutela delle lavoratrici.; ancora, l’obbligo di non discriminare né favorire i lavoratori tenendo conto di un criterio qualsiasi, sesso incluso, a volte costituisce un ulteriore ostacolo per le donne in cerca di occupazione (Estonia), che in ogni caso si ritrovano con stipendi mediamente inferiori del 20% rispetto a quelli degli uomini (anche perché la maggioranza delle donne è impiegata in settori poco qualificati o meno remunerativi). Inoltre, in molti Stati non sono presenti ONG femminili o movimenti per l’emancipazione femminile (Romania): questo impedisce lo sviluppo di una coscienza di genere e della consapevolezza dei propri diritti, oltre a sottrarre una possibilità di tutela e assistenza concreta. Problematica è anche la situazione delle norme sulla violenza, soprattutto domestica, che non è ancora adeguatamente perseguita, sebbene si stiano compiendo sforzi per allineare la legislazione a quella dell’UE.

Vi sono tuttavia casi in cui alla revisione delle norme sulle pari opportunità è effettivamente corrisposto un miglioramento delle condizioni di vita delle donne: è il caso di Cipro, forse lo Stato più all’avanguardia tra i nuovi membri dell’UE, oppure della Repubblica Ceca, dove il numero delle imprenditrici sta crescendo sensibilmente.

4 – La condizione femminile nei Paesi dell’Europa Orientale

Come accadeva per gli uomini, durante la Repubblica popolare anche per le donne era obbligatorio trovare un’occupazione; tuttavia, dato che i lavori domestici e la cura della famiglia erano rimasti di competenza quasi esclusivamente femminile, erano state approvate norme apposite che aiutavano le donne a conciliare il loro duplice ruolo lavorativo e privato.

Queste stesse leggi, tuttavia, relegavano gran parte della popolazione femminile attiva a lavori poco qualificati e mal pagati; nella politica, grazie ad un sistema di quote, la presenza delle donne era sì garantita a livello locale, ma diminuiva fino a scomparire man mano che ci si avvicinava alle cariche più elevate. Migliore era la situazione in ambito accademico, dove la presenza femminile (pure se con la stessa struttura “a piramide” della politica) era più forte, e, d’altro canto, in nazioni come l’Ungheria il numero delle laureate supera ancora oggi quello dei laureati uomini.

Tutto questo è all’origine di una percezione distorta del concetto di “emancipazione”, che nel periodo socialista fu ridotto al semplice ambito lavorativo – ”fai lo stesso lavoro di un uomo, è il massimo che puoi ottenere dalla vita”. Non ci si può dunque stupire del fatto che, al momento della transizione, mentalità di tipo patriarcale abbiano ripreso vigore, spesso incoraggiate dalle stesse donne, che vedevano come un lusso il poter essere semplicemente “casalinghe”, come le occidentali.

Tuttavia, ben presto è divenuto evidente quanto questo “revival” sia controproducente per la carriera femminile; inoltre, la scomparsa o l’attenuazione degli strumenti di tutela dello stato sociale ha messo in crisi le famiglie, aggravando le situazioni di disagio economico presenti soprattutto nelle campagne e nelle periferie.

La transizione verso l’economia di mercato è stata travagliata per tutti, con i riflessi negativi che ha avuto sull’occupazione totale; stranamente, però, nell’ultimo decennio in alcuni Stati (Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) l’occupazione femminile non ha seguito il brusco calo di quella maschile, poiché la gran parte dei licenziamenti è avvenuta in settori dove la presenza delle donne era irrilevante (ad esempio nell’industria pesante). D’altro canto, i settori nei quali dall’89 è maggiormente aumentata la percentuale di lavoratrici sono anche quelli il cui prestigio è diminuito maggiormente negli ultimi 20 anni.

Oggi, in linea con la tendenza dei paesi occidentali, la presenza femminile è prevalente nel settore terziario – pubblica amministrazione, scuola, sanità – con punte del 73% (Lettonia); ancora alta rimane la partecipazione al settore agricolo (soprattutto in Romania e Polonia), cosa che pone non pochi interrogativi, in vista di una futura evoluzione tecnologica e organizzativa che farà diminuire drasticamente il fabbisogno di manodopera poco qualificata. Per quanto riguarda il campo accademico, il numero delle scienziate è sì in aumento, ma il taglio dei fondi alla ricerca mette in seria difficoltà gli istituti, che sono dunque costretti a ridurre organici e stipendi; sovente è l’abbandono degli scienziati uomini ad aprire le porte della ricerca alle donne, sicché l’aumento della presenza femminile non è dovuto tanto alla diffusione di nuove mentalità, quanto al declino del prestigio della ricerca. Inoltre, per quelle scienziate che desiderano formare una famiglia il cammino è ancora più arduo, e dunque, vista la mancanza di adeguati strumenti di tutela, non di rado le scienziate sono costrette a scegliere tra carriera e famiglia, con le conseguenze che si possono immaginare.

Un altro problema pressante è quello della riqualificazione professionale delle quaranta – cinquantenni: mentre le più giovani conseguono titoli di studio e qualifiche aggiornate (che le indirizzano verso lavori più remunerativi e prestigiosi), per chi ha perso il lavoro negli anni Ottanta ed alla ricerca di una nuova occupazione non vi sono prospettive rosee, dato che spesso mancano anche le possibilità di aggiornamento professionale.

Tristemente nota è anche la piaga della “tratta”, che coinvolge migliaia di donne dell’Europa orientale, attratte con l’inganno in occidente dal miraggio di un lavoro remunerativo e avviate alla prostituzione dalle organizzazioni criminali locali e da alcuni connazionali affiliati. Azioni concrete per combattere questo obbrobrio sono state perciò inserite tra i requisiti fondamentali da soddisfare per i nuovi Stati che desiderano far parte dell’ Unione Europea.

Non bisogna dimenticare a questo proposito la grave situazione delle donne Rom, non solo in Europa orientale: se la pratica ignobile della sterilizzazione forzata è oggi meno diffusa di un tempo, le donne Rom oggi hanno scarsissime possibilità di reagire alle violenze, alle discriminazioni e alle costrizioni (matrimoni combinati in giovane età, accattonaggio, prostituzione), poiché sono vittime sia della mentalità tradizionalmente maschilista della loro comunità, sia della diffidenza delle altre donne e delle autorità costituite.

In conclusione, possiamo affermare che in questi Paesi la condizione femminile sta pian piano migliorando, nonostante le difficoltà siano ancora molte e difficili da superare.

Ci vorrà ancora del tempo, perché le politiche e le normative delle ex – Repubbliche popolari riguardo alle pari opportunità si conformino allo standard europeo, sebbene in alcuni campi si siano compiuti progressi notevoli. Il pieno raggiungimento di questi obiettivi è però subordinato al consolidamento della percezione “positiva” dell’Unione Europea, realtà che deve essere considerata come opportunità di sviluppo, e non come ostacolo. Anche in questo senso, il cammino da compiere è ancora lungo.

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Bibliografia:

Dinucci Manlio, Il sistema globale seconda edizione – Geografia del sistema globale, Zanichelli Editore, 2006 http://www.zanichelli.it/materiali/dinucci

Di Sarcina Federica, Donne e cittadinanza in Europa. Politiche di coesione, d’integrazione, di parità, Centro di ricerca sull’integrazione europea – Università di Siena, 6 dicembre 2006, http://www.bluestone.it/donnepoliticaistituzioni/materiale.asp

Gruppo di lavoro del Segretariato generale – Task force “Ampliamento”, Nota tematica n° 26 – I diritti delle donne e l’ampliamento dell’Unione Europea, Parlamento Europeo, Lussemburgo, 14 luglio 1998

Philippe Busquin, Spreco di talenti: la situazione delle scienziate nei paesi dell’Europa orientale, Bruxelles, 30 gennaio 2004, http://europa.eu.int/comm/research/science-society/highlights_en.html

Raspini Matilde, Società: l’occupazione femminile nei Paesi dell’allargamento, http://www.ciss.it/societa/lavorodonne.htm

The Helsinki Group, Women as a science policy focus – National reports from the countries associated to the 5th Framework Programme, novembre 2000 http://ec.europa.eu/research/science-society/page_en.cfm?id=2906

Poesie della domenica

Il vento mi dà pace e la fontana
rumorosa l’oblio. E intanto penso
ricominciare. E sosto in questa piazza
ove il popolo sosta a me dintorno.

Sandro Penna, da “Croce e delizia” (1927-57)

Come, come, whoever you are.
Wanderer, worshipper, lover of leaving — it doesn’t matter,
Ours is not a caravan of despair.
Come, even if you have broken your vow a hundred times,
Come, come again, come.

Jalal al-Din Muhammad Rumi

IL REGNO DELLE DONNE

Cè un regno tutto tuo
che abito la notte
e le donne che stanno lì con te
son tante, amica mia,
sono enigmi di dolore
che noi uomini non scioglieremo mai.
Come bruciano le lacrime
come sembrano infinite
nessuno vede le ferite
che portate dentro voi.
Nella pioggia di Dio
qualche volta si annega
ma si puliscono i ricordi
prima che sia troppo tardi.

Guarda il sole quando scende
ed accende d’oro e porpora il mare
lo splendore è in voi
non svanisce mai
perché sapete che può ritornare il sole.
E se passa il temporale
siete giunchi ed il vento vi piega
ancor più forti voi delle querce e poi
anche il male non può farvi del male.

Una stampella d’oro
per arrivare al cielo
le donne inseguono l’amore.
Qualche volta, amica mia,
ti sembra quasi di volare
ma gli uomini non sono angeli.
Voi piangete al loro posto
per questo vi hanno scelto
e nascondete il volto
perché il dolore splende.
Un mistero che mai
riusciremo a capire
se nella vita ci si perde
non finirà la musica.

Guarda il sole quando scende
ed accende d’oro e porpora il mare
lo splendore è in voi
non svanisce mai
perché sapete che può ritornare il sole
dopo il buio ancora il sole.
E se passa il temporale
siete prime a ritrovare la voce
sempre regine voi
luce e inferno e poi
anche il male non può farvi del male.

Alda Merini (Poesia donata per la fondazione Doppia difesa)

La crisi

Non si parla d’altro. Da qualche mese a questa parte siamo diventati tutti economisti. Rendimenti, titoli, spread, manovre, bind bund bond e sirtaki serpeggiante a far da colonna sonora ai conigli del mattino. Paghi con un euro greco in panificio e ricevi occhiate storte e magari ti chiedono pure “non è che ne hai un’altro? magari uno tedesco, non si sa mai…”
E ora l’ennesima manovra (prima di una trilogia che vorrei assomigliasse al Signore degli Anelli, perché almeno sarei sicura che dopo 1000 pagine di peripezie il lieto fine c’è per tutti) e le stangate correlate, lacrime, sangue, ulcera e ragnatele nel portafogli, mentre il maialino del salvadanaio fa cura dimagrante.
Sapete che c’è?
Ne ho abbastanza.
Di sentirne sparare di grosse, sempre più grosse, sembra una di quelle gare delle medie a dire chi ce l’ha più lungo e chi la prenderà più sonoramente nel “velodromo Vigorelli”, per citare papà.
Siamo nella merda? Sì, siamo nella merda. Dovremo fare sacrifici? Sì, eccome. Tutti? tutti, anche se c’è sempre chi è più tutti degli altri. Ma è inutile continuare a dire: ci hanno rubato il futuro, adesso non si può più far niente, la nostra vita è finita, magari a 24 anni.
Posso dire una cosa?
Sono CAZ – ZA -TE.
Resto negli ultimi cent’anni, ok? Durante la prima guerra mondiale a migliaia sono fuggiti dal fronte orientale abbandonando ogni cosa – che spesso andò a rimpinguare il patrimonio dei vicini di casa degli sfollati, pochi minuti dopo la loro partenza.
Per anni certa gente è andata a lavorare mettendosi giornali nei maglioni per non sentire tanto freddo, perché soldi per comprare vestiti nuovi non ce n’erano.
Crisi del ’29. Seconda guerra mondiale. Alluvione nel Polesine, il Vajont, terremoto del Friuli, terremoto dell’Umbria. C’è gente che ha perso ogni cosa tranne quello che aveva addosso e le proprie lacrime, c’è gente che ha visto la morte in faccia anche più d’una volta, c’è gente che ne ha prese tante dalla vita che ci si chiede come abbia fatto a non morire di dolore.
Siamo stati nella merda tante volte. Come e peggio di adesso. Ma siamo riusciti a venirne fuori. Ci sono voluti anni, ma alla fine l’abbiamo spuntata. E nelle avversità c’è sempre chi ci guadagna a scapito degli altri, la fame non colpisce tutti allo stesso modo, si sa, è la naturale tendenza dell’umanità all’egoismo a causare tutto ciò. E anche la crisi, penso io. Ma non è una giustificazione per lamentarsi e basta.
L’unica cosa da fare è rimboccarsi le maniche. Se noi giovani non siamo capaci di fare altro che piangerci addosso, dire che ci hanno rubato il futuro e non fare niente, allora sì che siamo nella merda vera.
Ci aspettano anni duri, certo, io prego di conservare il lavoro che ho, la mia casa, la mia vita, la mia terra. Voglio lottare, non mi lascerò andare, non voglio dare ragione agli uccelli del malaugurio.

Alle prossime elezioni mi auguro che tutti penseremo due-tre volte prima di mettere la croce su un certo partito o (si spera) un certo candidato. Perché se questa manovra è fatta in un certo modo, è perché il Parlamento la deve approvare, con la gente che ora siede in quegli scranni. Tutto hanno fatto i politici, negli ultimi vent’anni, meno che pensare al bene del Paese. Siamo stati noi a votarli, questo è il risultato.
Ciononostante, io, abitante del mondo delle fate e dei folletti, credo ancora che da tutto questo sia possibile uscire. Non oggi, non domani. Ma si può e si deve lottare per riuscirci.

SULLA LIBERTÀ
E un oratore disse: Parlaci della Libertà.
E lui rispose:
Alle porte della città e presso il focolare vi ho veduto, prostrati, adorare la vostra libertà,
Così come gli schiavi si umiliano in lodi davanti al tiranno che li uccide.
Sì, al bosco sacro e all’ombra della rocca ho visto che per il più libero di voi la libertà non era che schiavitù e oppressione.
E in me il cuore ha sanguinato, poiché sarete liberi solo quando lo stesso desiderio di ricercare la libertà sarà una pratica per voi e finirete di chiamarla un fine e un compimento.
In verità sarete liberi quando i vostri giorni non saranno privi di pena e le vostre notti di angoscia e di esigenze.
Quando di queste cose sarà circonfusa la vostra vita, allora vi leverete al di sopra di esse nudi e senza vincoli.

Ma come potrete elevarvi oltre i giorni e le notti se non spezzando le catene che all’alba della vostra conoscenza hanno imprigionato l’ora del meriggio?
Quella che voi chiamate libertà è la più resistente di queste catene, benché i suoi anelli vi abbaglino scintillando al sole.

E cos’è mai se non parte di voi stessi ciò che vorreste respingere per essere liberi?
L’ingiusta legge che vorreste abolire è la stessa che la vostra mano vi ha scritto sulla fronte.
Non potete cancellarla bruciando i libri di diritto né lavando la fronte dei vostri giudici, neppure riversandovi sopra le onde del mare.

Se è un despota colui che volete detronizzare, badate prima che il trono eretto dentro di voi sia già stato distrutto.
Poiché come può un tiranno governare uomini liberi e fieri, se non per una tirannia e un difetto della loro stessa libertà e del loro orgoglio ?
E se volete allontanare un affanno, ricordate che questo affanno non vi è stato imposto, ma voi l’avete scelto.
E se volete dissipare un timore, cercatelo in voi e non nella mano di chi questo timore v’incute.
In verità, ciò che anelate e temete, che vi ripugna e vi blandisce, ciò che perseguite e ciò che vorreste sfuggire, ognuna di queste cose muove nel vostro essere in un costante e incompiuto abbraccio.
Come luci e ombre unite in una stretta, ogni cosa si agita in voi.
e quando un’ombra svanisce, la luce che indugia diventa ombra per un’altra luce.
E così quando la vostra libertà getta le catene diventa essa stessa la catena di una libertà più grande.

Khalil Gibran, da “Il Profeta