Dalla parte delle ragazze

La Giornata contro la violenza sulle Donne è caduta nel giorno del mio compleanno e – anche per questo – da qualche anno questa ricorrenza assume per me un carattere particolare.

L’altra sera, davanti alla torta, si parlava di uomini e donne, morosi e morose, in tono molto scherzoso (del resto, con due ragazze adolescenti forse meglio sdrammatizzare!). §Katniss, la ragazza più grande, ha detto candidamente: “no no, meglio non averlo il moroso… §Luisa ce l’ha ed è sempre lì che dice che non può dire questo e fare quell’altro, perché al suo moroso dà fastidio e dispiace”.

Ora, se si tratta di “non posso fumare/bere perché al mio moroso dà fastidio” tanto meglio… però mi è rimasta in testa, quella frase. Se già a 14 anni ci sono ragazze che pensano di non poter fare qualcosa perché “lui” non approva, siamo più indietro di quello che credevo, in merito ai diritti delle donne.

Siamo stati tutti adolescenti, insicure/i e bisognose/i di approvazione, perciò bisogna anche mettere i comportamenti nella giusta prospettiva. Però davvero mai abbassare la guardia, mai dare per scontato che abbiamo conquistato già abbastanza e che siamo “arrivate”. Perché basta guardarsi intorno per capire che così non è. Basta guardare il tutorial della “spesa sexy”… una cosa squallida e inutile, che però è stata pensata e ritenuta adatta ad andare in onda, nel 2020, sulla prima rete nazionale.

Arrivata alla mia “veneranda” età, alcune cose le vedo con più chiarezza. Mi rendo conto che paradossalmente la mia infanzia è stata più libera di quella di tante bambine di oggi, meno condizionata dalla pressione della crescita veloce che c’è adesso. Già alla primaria ci sono bambine che si fanno le unghie dalla nail artist, che vanno a scuola truccate e vestite come delle piccole cubiste, che mettono maglie della Decathlon con su scritto “only for girls”, che hanno oggetti di uso comune esclusivamente color rosa, tutto rosa, tutto stucchevolmente rosa. Quando ero piccola, tanto per dire, Hello Kitty aveva una bellissima salopette azzurra e un fiocchetto rosso sull’orecchio. Ora tutto rosa. Come la serie delle principesse Disney.

Per non parlare dei vestiti… possibile che sia così necessario agghindarle come delle piccole rockstar? Perché non possono essere semplicemente bambine? Perché usare subito reggiseni (a 5 anni…), magliette e top che lasciano la pancia scoperta, shorts ascellari… mi sembra un tentativo di farle sentire più adulte che può essere anche molto pericoloso. Non lo trovo francamente un segnale di libertà del tipo “ecco, adesso posso vestirmi come voglio e mostrare quello che voglio”. Non a 6, 8, 10 e nemmeno a 12 anni. La vera libertà non passa per una scollatura o per una minigonna, non può essere così.

Né ritengo che l’approvazione di qualcuno (soprattutto un nostro partner) debba essere condizionata alla sottomissione ai desideri e alle aspettative altrui. E questo bisogna farlo capire ai nostri ragazzi e ragazze, perché si arrivi prima possibile a non dover parlare ancora di violenza di genere, o di violenza in generale.

La musica è sicura

Venerdì si celebrava la Giornata per i Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Venerdì ci è arrivata tra capo e collo la notizia che i prefetti della nostra regione (Friuli Venezia Giulia) hanno stabilito il divieto di fare lezione in presenza per le scuole di musica, le bande e le associazioni assimilate, richiamandosi ad un comma del DPCM del 3 novembre.

Ora, siamo rimasti tutti basiti. E abbiamo deciso di fare qualcosa per farci sentire (trovate qui la nostra petizione).

Siamo tutti consapevoli della gravità della situazione (3000 contagi in tre giorni, in una Regione di 1 milione scarso di abitanti, sono parecchi). Proprio per questo, tutti questi enti hanno adottato da mesi dei protocolli di sicurezza molto stringenti che sono stati applicati in maniera rigorosa – tanto che ad oggi non abbiamo notizie di focolai riconducibili alle lezioni di musica né ai cori né alle orchestre, se ci sono stati sono stati bloccati sul nascere.

Ci è sembrato uno schiaffo, l’ennesimo, ai nostri ragazzi e ragazze. Hanno già dovuto rinunciare a tutto, perfino alla scuola in certi casi (perché diciamo la verità, la DAD nella maggior parte dei casi non è scuola “vera”, ma un surrogato peggiore del karkadé autarchico).

Ora, per lo zelo (o l’insensibilità?) di alcuni decisori, tolgono loro anche questo ultimo spazio di libertà, di speranza, di crescita sana. Perché sono considerati passatempi, attività non necessarie. Come se per stare bene e in salute non fosse fondamentale essere felici, avere delle emozioni positive, fare ciò che ci piace. Invece, nulla. Non viene affatto considerata la mole dell’indotto che queste attività creano: sono luoghi di lavoro, ripeto, DI LAVORO, per un gran numero di persone. Spesso giovani, che hanno magari già tagliato tutta la loro attività dal vivo a causa di queste regole.

Le alternative? Stare davanti ad un pc, con la connessione ballerina, che fa arrivare suoni distorti. Se noi docenti abbiamo la possibilità e le competenze per acquistare strumenti tecnologici adatti a fare lezione online, molti nostri alunni non ce l’hanno, fanno lezione con qualunque cosa, su piattaforme non adatte, perché non ci sono soldi e competenze per accedere ad alternative migliori.

Consapevole di questo, ho fatto partire una petizione, che trovate qui https://www.change.org/lamusicasicura2020

Anche in Emilia Romagna hanno intrapreso iniziative del genere, perché semplicemente non si può chiudere un settore che ha tutte le carte in regola per proseguire le attività in sicurezza.

Aiutateci a fare qualcosa, per tante persone che lavorano e tante e tanti giovani che ne hanno bisogno.

Musica… la cosa più bella

“Cos’è la musica?”

“Bella, bella bella… la cosa più bella… emozione… vita… tutto!”

Sono parole sentite  già in tante occasioni, forse trite. Eppure vere. Tanto più se dette da persone speciali. Anziani in casa di riposo, per esempio. Dopo una “visita” di un singolare personaggio armato di fisarmonica. Il musicoterapista.

Ho avuto di recente il piacere di partecipare ad un interessante seminario dal titolo “La Musica della Vita – Musicoterapia Anziani Disabilità” (tenuto dal bravo M° Roberto Bellavigna) e ammetto che ci sono andata da ignorante, conoscendo appena un po’ la musicoterapia e quasi per nulla il vero soggetto del seminario, la persona anziana e il suo mondo. E ne sono uscita entusiasta. Ma anche sconvolta.

Ormai di musicoterapia abbiamo sentito parlare quasi tutti – per fortuna, potrei dire, da musicista. Chi più chi meno, siamo affascinati tutti dall’arte dei suoni, dalle armonie, ognuno con la propria particolare idea di musica (“ognuno col suo viaggio, ognuno diverso…” per dirla con Vasco). Ne abbiamo viste di scene al cinema, qualcuno anche nella vita reale (con tutte le differenze del caso) persone in coma che grazie a voci e musiche amate si risvegliano. Magari scene presentate in maniera un po’ ottimistica, ma almeno basate su fatti realmente accaduti.

Ovvio, la musica non è una medicina in senso stretto. Non fa “sparire” le malattie, come il paracetamolo fa passare la febbre. Non ci sono al momento evidenze scientifiche che attestino senza ombra di dubbio il potere curativo della musica – e del resto sarà mai possibile, vista l’enorme complessità dell’essere umano? Ma noi tutti abbiamo sperimentato gli effetti dei suoni su noi stessi, la rabbia o la tristezza che si dissolvono con l’ascolto di alcuni particolari brani, o l’allegria che suscitano altri, il desiderio e avanti così.

Se non ci stupiamo più di tanto della presenza del musicoterapista in strutture protette per persone disabili o nelle scuole, insomma, in luoghi dedicati in varia misura alle persone giovani – e musica, energia e gioventù sono spesso accomunati nell’immaginario collettivo – forse non è così scontato che questa figura entri anche in una casa di riposo – non certo il primo luogo che associamo alla parola “Vita”.

E anche il mio unico ricordo della casa di riposo non è di sicuro dei più allegri. Una stanza bianca e verdina. Gli anziani seduti schiena alla parete, lo sguardo fisso nel vuoto – che tanto la televisione era sì accesa, ma col volume disattivato. Silenzio e qualche occasionale lamento. L’unica arzilla, che tormentava un lavoro a uncinetto, la nostra amica Ida. E che feste che ci aveva fatto! Il gelato, una passeggiata, anche solo una chiacchierata, erano un raggio di luce in un posto che non le offriva una vita “vera”, pur fornendole tutte le cure necessarie e possibili.

L’idea dell’uomo comune riguardo le case di riposo – e che ipocritamente celiamo –  è considerarle dei veri e propri “parcheggi”, dove chi non ha altra alternativa viene ricoverato in attesa che la vita faccia il suo corso. Chi è semplicemente rimasto solo, chi malato e non più autosufficiente, chi si vuole allontanare da una famiglia che non sopporta più, chi viene allontanato. Ma ci dimentichiamo spesso del fatto che sono persone con un passato, dei gusti, delle piccole manie, dei sentimenti. Che anche solo l’ascoltare una canzone o una musica amata può portare un po’ di gioia o di serenità anche nella giornata di una persona malata di Alzheimer o Parkinson. Forse non sa chi è, o dov’è, o che giorno è oggi, ma in barba ai questionari standard questa persona canta, batte le mani, usa gli strumenti, balla, ride. Ricorda, per quanto possibile e per il tempo di una canzone. E, magari, sta meglio – e fa stare meglio i suoi compagni, gli operatori, le infermiere che lo accudiscono.

In fondo, vedere e sentire le persone cantare, ballare, vivere la musica con tanto abbandono, dalla sala comune fino al loro ultimo letto, magari con il rosario in mano, consapevoli della fine che si avvicina eppure sereni e fiduciosi… insegna più cose riguardo alla musica rispetto alla marea di parole che quotidianamente si scrivono su di essa.

Comprese le mie.

Per saperne di più:

www.musicoterapia-anziani.eu

The King’s Singers – Friends from Tallis to Beatles

Entri nel foyer e già comprendi che non sarà un concerto qualunque, quello che inizierà di lì a pochi minuti.

Perché?

Fondamentalmente dal colore delle chiome. Nero. Bruno. Pochi biondi, ma a ben guardare ce n’è anche di quelli. Rossiccio, tinto o meno, non stiamo ad indagare. Insomma, la percentuale di grigio è notevolmente ridotta. Eppure il titolo del concerto parla chiaro: from Tallis to Beatles, da Tallis (compositore inglese vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo) ai Beatles – e questa sarebbe la parte nota della faccenda. Magari chissà, tanti sbarbatelli avranno pensato “boh, chissà chi è questo Tallis, forse un cantautore americano mezzo sconosciuto, ma sì, chi se ne importa”. Ne dubito, francamente.

Ci deve essere qualcosa di speciale, perché tanti giovani affollino il teatro di lunedì sera, per uno spettacolo di un gruppo a cappella. Un gruppo. Forse IL gruppo, diamo ai King’s Signers quello che è dei King’s Singers. Sulla piazza dal ’68 ad oggi, pur con vari cambi di formazione, 120 concerti in giro per il mondo solo nel 2011 (tralasciando registrazioni, apparizioni televisive e varie). Allora forse la molla è sufficiente a schiodare dalle orecchie l’immancabile iPod e a immergersi nel buio di una sala dove, voilà!, ad un certo punto entrano questi sei personaggi.

Grigiovestiti, camicia bianca, cravatta crema, scarpe di cuoio, tutti rigorosamente uguali, distinguibili soltanto per l’altezza e la presenza (o assenza!) di capelli in testa.

E dalle voci.

E che voci…

Nel giro di un minuto, è magia. E non è del tutto scontato, se si pensa che il primo brano è Haec Dies, mottetto a sei voci del suddetto Thomas Tallis. Musica non esattamente immediata, per le orecchie moderne. Ma potente, senza dubbio. Tanto che viene quasi naturale pensare che il suo allievo, William Byrd, potesse aver ragione a dire, alla morte del suo mentore “Tallis è morto, con lui muore la musica” (Ye sacred muses).

Conquistato il pubblico, anche grazie alla presentazione dei brani letta (coraggiosamente!) in italiano, si passa a portate più stuzzicanti, come i geniali Nonsense di Goffredo Petrassi, su ridicolissimi testi (tradotti in italiano) di Edward Lear. Ridicoli sì, ma musicalmente parecchio complessi, molto “contemporanei” ma senza dubbio efficaci – anche per la presenza scenica (molto british!) dei sei cantori.

Chiude la prima parte un assaggio di musica più “rilassante”, anche se forse meno originale, simpatiche e scorrevoli arie tratte dalle operette di William S. Gilbert e Arthur Sullivan.

Deciso il cambio di registro della seconda parte, con arrangiamenti strappa-applausi di quattro canzoni popolari delle isole britanniche (tra cui un Greensleeves semplicemente da brividi), Obla’di obla’da (Beatles), una versione commovente di That lonesome road di James Taylor e una chicca vocal jazz, The recipe of love.

Successo? Trionfo! Tanto che, dopo più di una chiamata, un bis e scroscianti applausi, i nostri sei escono nuovamente: ringraziano e si scusano (!) perché di fatto non avrebbero più brani da eseguire, stanno studiando nuovi pezzi addirittura durante i viaggi in aereo, tuttavia riescono a regalare al pubblico presente ancora un gioiellino, lo spiritual Roll Jordan Roll.

Due considerazioni: primo, che la buona musica, eseguita e presentata bene, attira ed emoziona profondamente le persone a prescindere da stile, genere, epoca, condizione sociale; secondo, che anche in una regione per certi versi chiusa e refrattaria ai cambiamenti e diffidente nei confronti della creatività, le persone sanno apprezzare e riconoscere il valore di una proposta culturale di alto livello.

Con l’augurio che ce ne siano molte altre ancora, di queste occasioni!

La crisi

Non si parla d’altro. Da qualche mese a questa parte siamo diventati tutti economisti. Rendimenti, titoli, spread, manovre, bind bund bond e sirtaki serpeggiante a far da colonna sonora ai conigli del mattino. Paghi con un euro greco in panificio e ricevi occhiate storte e magari ti chiedono pure “non è che ne hai un’altro? magari uno tedesco, non si sa mai…”
E ora l’ennesima manovra (prima di una trilogia che vorrei assomigliasse al Signore degli Anelli, perché almeno sarei sicura che dopo 1000 pagine di peripezie il lieto fine c’è per tutti) e le stangate correlate, lacrime, sangue, ulcera e ragnatele nel portafogli, mentre il maialino del salvadanaio fa cura dimagrante.
Sapete che c’è?
Ne ho abbastanza.
Di sentirne sparare di grosse, sempre più grosse, sembra una di quelle gare delle medie a dire chi ce l’ha più lungo e chi la prenderà più sonoramente nel “velodromo Vigorelli”, per citare papà.
Siamo nella merda? Sì, siamo nella merda. Dovremo fare sacrifici? Sì, eccome. Tutti? tutti, anche se c’è sempre chi è più tutti degli altri. Ma è inutile continuare a dire: ci hanno rubato il futuro, adesso non si può più far niente, la nostra vita è finita, magari a 24 anni.
Posso dire una cosa?
Sono CAZ – ZA -TE.
Resto negli ultimi cent’anni, ok? Durante la prima guerra mondiale a migliaia sono fuggiti dal fronte orientale abbandonando ogni cosa – che spesso andò a rimpinguare il patrimonio dei vicini di casa degli sfollati, pochi minuti dopo la loro partenza.
Per anni certa gente è andata a lavorare mettendosi giornali nei maglioni per non sentire tanto freddo, perché soldi per comprare vestiti nuovi non ce n’erano.
Crisi del ’29. Seconda guerra mondiale. Alluvione nel Polesine, il Vajont, terremoto del Friuli, terremoto dell’Umbria. C’è gente che ha perso ogni cosa tranne quello che aveva addosso e le proprie lacrime, c’è gente che ha visto la morte in faccia anche più d’una volta, c’è gente che ne ha prese tante dalla vita che ci si chiede come abbia fatto a non morire di dolore.
Siamo stati nella merda tante volte. Come e peggio di adesso. Ma siamo riusciti a venirne fuori. Ci sono voluti anni, ma alla fine l’abbiamo spuntata. E nelle avversità c’è sempre chi ci guadagna a scapito degli altri, la fame non colpisce tutti allo stesso modo, si sa, è la naturale tendenza dell’umanità all’egoismo a causare tutto ciò. E anche la crisi, penso io. Ma non è una giustificazione per lamentarsi e basta.
L’unica cosa da fare è rimboccarsi le maniche. Se noi giovani non siamo capaci di fare altro che piangerci addosso, dire che ci hanno rubato il futuro e non fare niente, allora sì che siamo nella merda vera.
Ci aspettano anni duri, certo, io prego di conservare il lavoro che ho, la mia casa, la mia vita, la mia terra. Voglio lottare, non mi lascerò andare, non voglio dare ragione agli uccelli del malaugurio.

Alle prossime elezioni mi auguro che tutti penseremo due-tre volte prima di mettere la croce su un certo partito o (si spera) un certo candidato. Perché se questa manovra è fatta in un certo modo, è perché il Parlamento la deve approvare, con la gente che ora siede in quegli scranni. Tutto hanno fatto i politici, negli ultimi vent’anni, meno che pensare al bene del Paese. Siamo stati noi a votarli, questo è il risultato.
Ciononostante, io, abitante del mondo delle fate e dei folletti, credo ancora che da tutto questo sia possibile uscire. Non oggi, non domani. Ma si può e si deve lottare per riuscirci.

SULLA LIBERTÀ
E un oratore disse: Parlaci della Libertà.
E lui rispose:
Alle porte della città e presso il focolare vi ho veduto, prostrati, adorare la vostra libertà,
Così come gli schiavi si umiliano in lodi davanti al tiranno che li uccide.
Sì, al bosco sacro e all’ombra della rocca ho visto che per il più libero di voi la libertà non era che schiavitù e oppressione.
E in me il cuore ha sanguinato, poiché sarete liberi solo quando lo stesso desiderio di ricercare la libertà sarà una pratica per voi e finirete di chiamarla un fine e un compimento.
In verità sarete liberi quando i vostri giorni non saranno privi di pena e le vostre notti di angoscia e di esigenze.
Quando di queste cose sarà circonfusa la vostra vita, allora vi leverete al di sopra di esse nudi e senza vincoli.

Ma come potrete elevarvi oltre i giorni e le notti se non spezzando le catene che all’alba della vostra conoscenza hanno imprigionato l’ora del meriggio?
Quella che voi chiamate libertà è la più resistente di queste catene, benché i suoi anelli vi abbaglino scintillando al sole.

E cos’è mai se non parte di voi stessi ciò che vorreste respingere per essere liberi?
L’ingiusta legge che vorreste abolire è la stessa che la vostra mano vi ha scritto sulla fronte.
Non potete cancellarla bruciando i libri di diritto né lavando la fronte dei vostri giudici, neppure riversandovi sopra le onde del mare.

Se è un despota colui che volete detronizzare, badate prima che il trono eretto dentro di voi sia già stato distrutto.
Poiché come può un tiranno governare uomini liberi e fieri, se non per una tirannia e un difetto della loro stessa libertà e del loro orgoglio ?
E se volete allontanare un affanno, ricordate che questo affanno non vi è stato imposto, ma voi l’avete scelto.
E se volete dissipare un timore, cercatelo in voi e non nella mano di chi questo timore v’incute.
In verità, ciò che anelate e temete, che vi ripugna e vi blandisce, ciò che perseguite e ciò che vorreste sfuggire, ognuna di queste cose muove nel vostro essere in un costante e incompiuto abbraccio.
Come luci e ombre unite in una stretta, ogni cosa si agita in voi.
e quando un’ombra svanisce, la luce che indugia diventa ombra per un’altra luce.
E così quando la vostra libertà getta le catene diventa essa stessa la catena di una libertà più grande.

Khalil Gibran, da “Il Profeta