Dalla parte delle ragazze

La Giornata contro la violenza sulle Donne è caduta nel giorno del mio compleanno e – anche per questo – da qualche anno questa ricorrenza assume per me un carattere particolare.

L’altra sera, davanti alla torta, si parlava di uomini e donne, morosi e morose, in tono molto scherzoso (del resto, con due ragazze adolescenti forse meglio sdrammatizzare!). §Katniss, la ragazza più grande, ha detto candidamente: “no no, meglio non averlo il moroso… §Luisa ce l’ha ed è sempre lì che dice che non può dire questo e fare quell’altro, perché al suo moroso dà fastidio e dispiace”.

Ora, se si tratta di “non posso fumare/bere perché al mio moroso dà fastidio” tanto meglio… però mi è rimasta in testa, quella frase. Se già a 14 anni ci sono ragazze che pensano di non poter fare qualcosa perché “lui” non approva, siamo più indietro di quello che credevo, in merito ai diritti delle donne.

Siamo stati tutti adolescenti, insicure/i e bisognose/i di approvazione, perciò bisogna anche mettere i comportamenti nella giusta prospettiva. Però davvero mai abbassare la guardia, mai dare per scontato che abbiamo conquistato già abbastanza e che siamo “arrivate”. Perché basta guardarsi intorno per capire che così non è. Basta guardare il tutorial della “spesa sexy”… una cosa squallida e inutile, che però è stata pensata e ritenuta adatta ad andare in onda, nel 2020, sulla prima rete nazionale.

Arrivata alla mia “veneranda” età, alcune cose le vedo con più chiarezza. Mi rendo conto che paradossalmente la mia infanzia è stata più libera di quella di tante bambine di oggi, meno condizionata dalla pressione della crescita veloce che c’è adesso. Già alla primaria ci sono bambine che si fanno le unghie dalla nail artist, che vanno a scuola truccate e vestite come delle piccole cubiste, che mettono maglie della Decathlon con su scritto “only for girls”, che hanno oggetti di uso comune esclusivamente color rosa, tutto rosa, tutto stucchevolmente rosa. Quando ero piccola, tanto per dire, Hello Kitty aveva una bellissima salopette azzurra e un fiocchetto rosso sull’orecchio. Ora tutto rosa. Come la serie delle principesse Disney.

Per non parlare dei vestiti… possibile che sia così necessario agghindarle come delle piccole rockstar? Perché non possono essere semplicemente bambine? Perché usare subito reggiseni (a 5 anni…), magliette e top che lasciano la pancia scoperta, shorts ascellari… mi sembra un tentativo di farle sentire più adulte che può essere anche molto pericoloso. Non lo trovo francamente un segnale di libertà del tipo “ecco, adesso posso vestirmi come voglio e mostrare quello che voglio”. Non a 6, 8, 10 e nemmeno a 12 anni. La vera libertà non passa per una scollatura o per una minigonna, non può essere così.

Né ritengo che l’approvazione di qualcuno (soprattutto un nostro partner) debba essere condizionata alla sottomissione ai desideri e alle aspettative altrui. E questo bisogna farlo capire ai nostri ragazzi e ragazze, perché si arrivi prima possibile a non dover parlare ancora di violenza di genere, o di violenza in generale.

La musica è sicura

Venerdì si celebrava la Giornata per i Diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Venerdì ci è arrivata tra capo e collo la notizia che i prefetti della nostra regione (Friuli Venezia Giulia) hanno stabilito il divieto di fare lezione in presenza per le scuole di musica, le bande e le associazioni assimilate, richiamandosi ad un comma del DPCM del 3 novembre.

Ora, siamo rimasti tutti basiti. E abbiamo deciso di fare qualcosa per farci sentire (trovate qui la nostra petizione).

Siamo tutti consapevoli della gravità della situazione (3000 contagi in tre giorni, in una Regione di 1 milione scarso di abitanti, sono parecchi). Proprio per questo, tutti questi enti hanno adottato da mesi dei protocolli di sicurezza molto stringenti che sono stati applicati in maniera rigorosa – tanto che ad oggi non abbiamo notizie di focolai riconducibili alle lezioni di musica né ai cori né alle orchestre, se ci sono stati sono stati bloccati sul nascere.

Ci è sembrato uno schiaffo, l’ennesimo, ai nostri ragazzi e ragazze. Hanno già dovuto rinunciare a tutto, perfino alla scuola in certi casi (perché diciamo la verità, la DAD nella maggior parte dei casi non è scuola “vera”, ma un surrogato peggiore del karkadé autarchico).

Ora, per lo zelo (o l’insensibilità?) di alcuni decisori, tolgono loro anche questo ultimo spazio di libertà, di speranza, di crescita sana. Perché sono considerati passatempi, attività non necessarie. Come se per stare bene e in salute non fosse fondamentale essere felici, avere delle emozioni positive, fare ciò che ci piace. Invece, nulla. Non viene affatto considerata la mole dell’indotto che queste attività creano: sono luoghi di lavoro, ripeto, DI LAVORO, per un gran numero di persone. Spesso giovani, che hanno magari già tagliato tutta la loro attività dal vivo a causa di queste regole.

Le alternative? Stare davanti ad un pc, con la connessione ballerina, che fa arrivare suoni distorti. Se noi docenti abbiamo la possibilità e le competenze per acquistare strumenti tecnologici adatti a fare lezione online, molti nostri alunni non ce l’hanno, fanno lezione con qualunque cosa, su piattaforme non adatte, perché non ci sono soldi e competenze per accedere ad alternative migliori.

Consapevole di questo, ho fatto partire una petizione, che trovate qui https://www.change.org/lamusicasicura2020

Anche in Emilia Romagna hanno intrapreso iniziative del genere, perché semplicemente non si può chiudere un settore che ha tutte le carte in regola per proseguire le attività in sicurezza.

Aiutateci a fare qualcosa, per tante persone che lavorano e tante e tanti giovani che ne hanno bisogno.

Immunità di genere

Mi ha sempre fatto un effetto strano dire “ministra”, “architetta”, “sindaca”… insomma, girare al femminile sostantivi che ho sempre sentito declinare al maschile. Perché mi infastidisce sottolineare il genere di chi fa una determinata professione o ha un certo ruolo, penso che dovrebbe interessarci l’operato di queste figure, la loro competenza effettiva, non il loro sesso o peggio le loro preferenze in merito… sono tutte questioni private che dovrebbero essere rispettate come tali.

Studiando per l’esame di antropologia culturale (per i famigerati 24 cfu per l’abilitazione all’insegnamento) ho potuto però riflettere in merito e – se non cambiare idea – comprendere come mai alcuni/e fanno una questione di principio nel sottolineare il genere, arrivando a sostituire la desinenza con * (tipo alunn*, anche se questa soluzione mi sembra davvero stilisticamente orrenda, pur se neutra).

Mi ha colpito a questo proposito il messaggio del libro “Etnografie in bottiglia – Apprendere per relazioni nei contesti educativi” di Roberta Bonetti (Meltemi Editore). Il volume ha ottimi obiettivi (parlare di antropologia ai non addetti ai lavori), che però vengono sconfessati da una costruzione molto farraginosa e confusionaria, con un filo del discorso che non si sviluppa in maniera lineare ma salta di palo in frasca e francamente rende il testo piuttosto oscuro e complicato; tuttavia il messaggio e l’esperienza che racconta sono molto interessanti. In particolare all’inizio si dice che gli oggetti condizionano il nostro modo di vivere in maniera molto profonda: non solo, più sono “invisibili” e più condizionano la nostra vita. Perciò, secondo l’autrice, il design dovrebbe accompagnarsi all’antropologia per arrivare ad influenzare la vita delle persone in senso positivo. Pensiamo ad esempio ad una cartina: i punti cardinali, i simboli e i colori sono generalmente frutto di convenzioni (quindi astratti) ma vedere una cartina con il sud in alto e il nord in basso ci disorienta, ci sembra sbagliata. In ultima analisi, condiziona il nostro modo di vedere la realtà e ce ne accorgiamo solo in presenza di cambiamenti. Prospettiva molto interessante che non avevo mai considerato.

In questo senso pensavo alla famigerata immagine dell’app Immuni: con la donna alla finestra con i braccio il bebé e l’uomo alla finestra accanto al computer. Mi sono sentita davvero mortificata anche io, che ho sempre cercato di andare al nocciolo delle cose, senza fermarmi alle immagini. Ma stavolta era davvero palese l’incongruenza.

app immuni

Perché occuparsene, quando abbiamo ben altri problemi? Perché è un’idea dura a morire: la donna si occupa della famiglia e l’uomo lavora per mantenerla. Quello che sottolineava anche Elena Gianini Belotti in “Dalla parte delle bambine” – scritto negli anni Settanta ma in alcune parti ancora attuale. I maschi lavorano e vivono avventure fuori casa, devono essere attivi; le femmine stanno a casa e in famiglia, se lavorano non si sa bene cosa facciano e comunque devono occuparsi anche della casa. La realtà non era sempre quella nemmeno quarant’anni fa, però la percezione comune continua ad essere la stessa, non importa quanti Nobel e quante donne si affermino nel mondo del lavoro, sono eccezioni e bisogna additarle come tali… appunto “ministra”, “sindaca”, “architetta”. Eppure in qualche modo capisco questa necessità: per diventarlo hanno dovuto anche combattere contro un pregiudizio che le considera comunque meno capaci di svolgere questi ruoli, tanto che è quasi un risarcimento femminilizzare le funzioni.

Torniamo all’immagine. Che sembrerebbe innocua. Ma che è ingiusta perfino nei confronti degli uomini. Penso al mio compagno, ogni giorno ore davanti al pc con sue figlie a dare una mano, al telefono per questioni di lavoro, ai fornelli per pranzo e cena – mentre io sono al computer a fare lezione, correggere compiti, preparare lezioni, a riunione per la scuola, a studiare per gli esami… con una montagna di roba da stirare che mi attende minacciosa in camera. Oppure a un mio caro amico, chiuso in un appartamento senza balcone in una grande città, con un bimbo di due anni che reclama attenzione e affetto e i suoi genitori (soli con le famiglie in altre regioni) che devono trovare equilibri impossibili per tenere insieme tutto – compresi loro stessi – con la preoccupazione di conservarlo, un lavoro, alla riapertura… no, non era possibile stare zitte. 

Per non parlare delle infermiere, delle dottoresse, dei loro colleghi maschi… potrei continuare all’infinito, di tutti noi che abbiamo sopportato questo periodo assurdo e abbiamo fatto del nostro meglio, qualunque fosse il nostro sesso. Quella era solo un’immagine, vero. Ma più una cosa è invisibile e meno ci rendiamo conto della sua presenza e del fatto che la stiamo usando; essa influenza la nostra vita e le nostre scelte anche se in apparenza “è soltanto un’immagine”. Vista così, perde la sua neutralità e diventa uno strumento di condizionamento potente proprio perché in apparenza innocuo.

Insomma, basta stereotipi. I lavori non hanno genere.

Monadi

Il mio primo ricordo sulla filosofia è stato il racconto che mi fece mia madre del momento in cui decise che la filosofia non serviva a nulla… fu esattamente nel momento in cui sentì parlare di Leibniz e dell’idea delle monadi fluttuanti. Ma non fu il mio unico incontro- scontro con questo concetto così alieno. Lo ritrovai in uno dei miei romanzi preferiti di quando ero ragazzina, “Principessa Laurentina” di Bianca Pitzorno: si riferiva alla definizione che dà il papà di una delle protagoniste riguardo all’amicizia tra queste tre ragazze, per l’esattezza “una monade trilobata, senza porte né finestre”.

Non che alle medie smaniassi per studiare filosofia, intendiamoci. Ma questa espressione mi rimase in testa, anche se il mio incontro con Leibniz in quarta superiore non servì affatto a schiarirmi le idee su cosa fossero queste benedette monadi – palloni di vetro sospesi nell’aria? Io li ho sempre immaginati così, corretto o meno che fosse…

Mi sono tornate in mente questo pomeriggio, durante una estenuata conversazione con il mio compagno a proposito di insegnanti stressati, tesine strampalate, studenti impantanati, Distruzione A Distanza e ministre imbutofile. E toh che ti compare la monade.

Perché diciamo che mi trovo presa tra due fuochi, quello di adulto che tenta di seguire gli adolescenti di casa nello studio (naturalmente sbagliando tutto!) e docente che si sforza di “bucare lo schermo” per arrivare a casa dei suoi studenti e tentare di trasmettere – se non contenuti – almeno emozioni, pensieri, domande, dubbi… volo troppo alto? O forse troppo basso? Mah.

La cosa più frustrante di questa DAD è la solitudine: la difficoltà di capire se un approccio funziona o meno, se un compito è utile e spiegato bene, se è interessante, se ho caricato il file correttamente e ho messo tutte le spunte in modo che gli studenti possano vederlo e scaricarlo, se i compiti sono stati caricati correttamente (i ragazzi li hanno fatti ma magari io non li vedo), le uscite senza senso dei colleghi, le pretese di certi genitori (ma come, in terza parlate solo di tesine, non dovreste recuperare il programma perso??)… insomma, navighiamo nella tempesta a visibilità zero.

Intendiamoci: ci sono stati momenti e risposte molto belle e commoventi, anche da parte di ragazzi che in classe non emergevano in maniera particolare. Mi sta perfino bene che i genitori abbiano aiutato e seguito i ragazzi più in difficoltà, magari hanno trovato il modo di sbloccare certi meccanismi che forse c’erano e andavano solo oliati… chissà. Vedremo il prossimo anno, cosa resterà di questi mesi.

Quello che lascia davvero ammutoliti è il silenzio. Perché non rispondere con niente, a numerosi messaggi gentili, da parte di insegnanti e compagni? Perché ci sono ragazzi che navigano in abissi solitari e non si riescono a ripescare in nessun modo? Cosa c’è di sbagliato, qual’è il busillis che ci impedisce di legare una cima e tirarli su?

Come aprire qualche porta o finestra (ma anche solo una feritoia!) in quella monade?

Monday blues

Ogni tanto faccio davvero fatica. Ci sono giorni in cui penso che piano piano torneremo ad una vita normale, che bisogna seguire le regole, avere pazienza, sorridere e rilassarci, le cose andranno sicuramente meglio.

Ma non ci riesco sempre. Ci sono giorni – come oggi – in cui tutto ciò che non funziona sembra cadermi sulle spalle e schiacciarmi. Vedere i ragazzi sul video e non poterli incontrare, vedere in viso, parlare con loro, muovermi, cantare, fare musica davvero… ecco, mi manca il contatto. Io non ho capito ancora come si può fare musica senza fare musica. Senza ascoltare. Senza sentire. Senza cantare. Senza il corpo. Mi dispiace, non ci riesco. Ci provo, a parlare di cose che penso siano interessanti, che possano appassionarli, farli pensare, dargli una motivazione… ma fin dal primo minuto si capisce che stanno lì davanti allo schermo per dovere, che non gli importa affatto di quello che stai cercando di dire loro e che sarebbe infinitamente meglio smettere questa farsa e fare altro.

La didattica a distanza funziona con chi ha una famiglia alle spalle che supporta e controlla, che stimola, con i ragazzi che amano imparare. Con gli altri è un’inutile sofferenza e direi addirittura un accanimento terapeutico. Così si lasciano indietro i più deboli, vero… ma purtroppo non posso fare io insegnante tutto il lavoro: posso cercare gli argomenti più interessanti, attività, modi diversi, posso mettermi in gioco in tutti i modi, ma resta il fatto che dall’altra parte ci deve essere un passo, un gesto volontario, un’apertura. Non si può coinvolgere chi non vuole essere coinvolto, chi non fa nemmeno lo sforzo di accendere il computer, chi rimane al video a fare altro con i fratelli che gli ridono dietro durante la lezione. Ne ho piene le tasche di questa finta scuola, mi dispiace.

Imparare ad imparare

“La scuola deve insegnare ad imparare” è una delle frasi care a mio papà (professore di istituto tecnico in pensione). L’ho sentita ripetere per anni, fin da quando ho memoria. E bisogna riconoscere che era avanti, mio papà, rispetto alla didattica, quando non ci si sognava nemmeno di parlare di “competenze”.

Le famigerate competenze.

Ma sapete una cosa? Il discorso ha senso. Se fatto bene – e sottolineo SE – è un lavoro infinitamente più moderno ed efficace rispetto al classico iter della lezione frontale (spiegazione-domande-compito-correzione-voto-da capo). La didattica a distanza ha messo FINALMENTE in luce un aspetto talmente ovvio che spesso sfugge alla vista: che non si imparano cose che non interessano. Finché si è in classe, i ragazzi sono costretti a lavorare, volenti o nolenti; nel momento in cui non ci sono obblighi inevitabili, o c’è qualcuno che li segue e controlla anche nello studio, oppure i ragazzi fanno a meno di partecipare a cose che non piacciono. E del resto noi adulti che esempio diamo? Ciò che non ci piace semplicemente lo evitiamo, se è possibile. E perché mai i ragazzi dovrebbero essere diligenti e sottoporsi ad una tortura quotidiana se possono trovare scappatoie? Voglio dire, è ovvio che ci sono argomenti “difficili” che devono essere affrontati per la loro crescita, ma il modo con cui farlo efficacemente dipende dalle nostre scelte di insegnanti.

Lavorare per competenze sposta l’obiettivo: non devo SOLTANTO acquisire conoscenze e saperle ripetere (a pappagallo, oserei dire), ma devo prima di tutto “imparare ad imparare”. Non è sempre chiaro cosa questo voglia dire: nella mia piccola esperienza a scuola – di musica e non – sono arrivata alla conclusione che quella frase significa saper affrontare argomenti “nuovi” applicando le procedure insegnate ed utilizzate dal docente. Mi spiego meglio: in classe abbiamo parlato delle colonne sonore: la storia, perché e quando sono nate, l’evoluzione, alcuni compositori, ne abbiamo ascoltate in classe cercando di analizzare la musica da un punto di vista “tecnico” e l’effetto dell’abbinamento con le immagini del film.  Siamo arrivati all’elaborazione delle tesine per l’esame: a questo punto io non voglio che i miei alunni prendano di peso la musica ascoltata in classe e la schiaffino nella tesina, ma che applichino ad una colonna sonora DIVERSA ciò di cui abbiamo discusso e che hanno appreso in classe. Per me QUESTO è “imparare ad imparare”.

Chiaro, per me docente è molto più semplice verificare le conoscenze se mi limito al “programma”. Soprattutto se è in vigore da anni e anni. Vuoi mettere quanta fatica in meno? Non devo farmi domande, andare a cercare, pensare, verificare, sperimentare… tutte cose che richiedono un sacco di tempo. Chiaro che se un alunno vuole parlare dei Sabaton e io non ne ho mai sentito parlare devo andare a cercarli e ascoltarli e  – guarda un po’! – potrebbero non piacermi!! Ma ritengo infinitamente più importante sostenere l’alunno/a in un percorso che lui stesso ha scelto! Lui sta IMPARANDO, ed è tutto di guadagnato. Pensiamo al processo:

  1. ha scelto un tema generale
  2. ha cercato un argomento coerente per ogni materia
  3. se gli vengono in mente argomenti non contenuti nel “programma” di qualche materia deve cercare informazioni > selezionarle > metterle insieme > verificare che vadano bene con il tema proposto in origine

Per fare tutto questo deve necessariamente applicare le competenze che ha acquisito, ma lo fa di sua volontà e su un argomento che in qualche modo lo interessa. Perciò – mi domando – qual è il nostro vero obiettivo? Che gli alunni recitino a pappagallo cose trite e ritrite (e che quindi noi ci attacchiamo a flebo di zuccheri per sopravvivere a tesine tutte uguali e scontate) oppure che diano effettivamente prova di essere autonomi e in grado di imparare oltre il confine del famigerato “programma” ed entrino nel mondo della conoscenza, sapendo di poterlo percorrere con le proprie gambe?

Elisa – A modo tuo

Parole in quarantena

Sospese nella bolla

di un tessuto non tessuto

ci sono parole che

affiorano alle labbra

e non diciamo,

per paura

dell’invisibile, imponderabile azzardo

di una goccia di fiato.

Ci sono parole

che sgorgano come acqua fetida

calamitate

dalla luce di uno schermo

Ci sono parole che

muoiono in gola

davanti ad un viso amato

distante un metro

lungo miglia.

Chissà se anche le parole

soffrono di quarantena.

Giornata dell’Europa

L’ascolto di oggi è scontato. Però è talmente bello… quando lo faccio sentire ai ragazzi vedo che si danno di gomito e dicono “ma che roba è?”, perché Beethoven ce lo fa sudare, questo temino di sei note, talmente strimizito che i bambini che iniziano uno strumento lo suonano nel primo anno di pratica.

Eppure lì sta il genio. Te lo fa arrivare dopo una sinfonia intera, dopo una valanga di note di tutta l’orchestra, con questi contrabbassi e violoncelli che fanno la voce grossa, sembra che rimproverino qualcuno, che stiano cercando una via d’uscita a qualcosa… e poi ecco, dal silenzio… fa#– sol la la sol fa# mi re re mi fa# fa#– mi mi—

Che inizia timido, quasi nascondendosi, ma poi si eleva, coinvolge gli archi, poi tutta l’orchestra, sempre più forte, sempre più forte, fino ad arrivare alle voci e al coro. Mi fa sempre venire i brividi.

Ecco, è questa la metafora di Europa che mi piace. Qualcosa che nasce con difficoltà, da una grande confusione, da dibattiti, da un’energia che cerca canali di sfogo… fino a trovarli, a trovare un accordo e finalmente da lì a prendere il volo.

Oggi non mi sarei nemmeno accorta della festa, se non avessi letto il post di un amico tedesco.

L’Europa.

Era un sogno, qualcosa che noi abbiamo visto crescere con la promessa di diventare qualcosa di magnifico, una promessa di pace, sviluppo, unità… senza confini, barriere, limiti, se non i nostri sogni e desideri. Ricordo che in quarta superiore ho partecipato ad un concorso dell’Alliance Française che aveva un tema simile, il significato dell’Europa per noi giovani. E che avevo scritto che in futuro, alla domanda “da dove vieni?” avremmo risposto “vengo dall’Italia, ma sono Europea”.

Stiamo guardando i cocci, di quel sogno?

Oppure può essere questo il punto di svolta? Questo, il momento in cui le istituzioni hanno dimostrato i loro limiti, e che quindi gli aspetti su cui lavorare sono diventati evidenti agli occhi di tutti?

Nessuno dice che va tutto bene, che “in Europa” non ci siano disparità, giochi politici, egemonie, errori, strategie e quant’altro – e che per ragioni numeriche gli Stati più piccoli rischino di restare in svantaggio. Però forse, alle prossime elezioni (di qualsiasi genere) possiamo cercare di rimediare a queste falle, a questi problemi. Io ci ho sempre creduto e credo ancora, ad un’Europa come esempio di convivenza, collaborazione, sviluppo umano e sostenibile, un obiettivo che vale la pena perseguire e creare giorno per giorno.

Ricordiamo chi e perché ha sognato e costruito questa Europa. Come ci siamo sentiti quando abbiamo visto il Muro cadere, quando sono (almeno ufficialmente) terminati i conflitti in ex-Jugoslavia, Kosovo… io me lo ricordo, quando alla tv hanno annunciato che smettevano i bombardamenti su Sarajevo. Ero in prima o seconda elementare e ne sono stata felice. Oppure quando hanno alzato le sbarre e siamo potuti andare in Austria o Slovenia o Ungheria senza passaporti, controlli o altro, una pianura che tornava ad essere unica, senza linee immaginarie o terre di nessuno. Non è facile no. Ma che non sia facile, non significa anche che non sia possibile e desiderabile.

Buona festa dell’Europa. Ripartiamo da qui.

L. van Beethoven – IV movimento “Presto” dalla 9° Sinfonia in re minore

 

Mi sento… fiduciosa (Musicameron 34-35- 36)

Dopo due mesi di secco e caldo, finalmente è cambiato il tempo. L’altra sera mi sono addormentata con il rumore della pioggia sul tetto, non lo ricordavo quasi più, come l’odore della terra bagnata. O il colore delle cose dopo la pioggia: vivo, lucente, fresco.

Mi viene da pensare che la storia in fondo sia sempre un’alternanza di momenti buoni e cattivi, di corse in avanti e camminate sul posto o all’indietro. Penso a come si potevano sentire i miei bisnonni, cresciuti nella Belle Epoque e piombati nella Grande Guerra, e poi ancora in un’altra guerra – vent’anni, ora lo capisco, sono un battito di ciglia nella vita di una persona, almeno una volta superati i 18. Cosa deve essere stato per loro ricadere dentro ad una guerra, dopo averne vissuta una da poco tempo? Cosa avranno pensato, sperato, sentito? Cosa deve essere stato vivere al fronte, o nei campi di concentramento, o con il coprifuoco nelle città, magari pure sotto i bombardamenti? Eppure sono andati avanti, hanno resistito. E cosa deve essere stato ricostruire tutto da zero o quasi, e vedere poi, dopo altri vent’anni, un uomo sbarcare sulla Luna?

Insomma, nonostante questa chiusura sia pesante ogni giorno che passa, man mano che passa il tempo mi sento fiduciosa. Non che la situazione sia rosea, intendiamoci. Le nuvole nere si avvicinano in cielo veloci, ma se parliamo di economia di certo nessuno si augura brutto tempo. Chissà come sarà, da ora in poi, come ci adatteremo e cosa comporterà. Ho pensieri e preoccupazioni anche io. Ma l’estate si avvicina, i giorni si allungano, il caldo pian piano aumenta, e non riesco ad essere completamente pessimista.

Ci sono tante cose che non vanno e possono essere migliorate. Vite da reinventare, lavoro da ricreare. Non può essere solo la politica a dare delle risposte, qualcosa deve venire anche dalla società. Proposte concrete, idee concrete, perché non si può pensare che continuino ad arrivare le elemosine dall’INPS (e sono già tanto, ma non potrà durare).

Diamoci da fare per proporre, trovare soluzioni, mettere in atto nuove pratiche che possano farci vivere meglio durante il Covid, ma anche dopo. Non che sia facile, però forse stiamo vivendo una di quelle svolte epocali in cui si decide che strada prendere per i prossimi anni e decenni, non soltanto per qualche mese. Facciamo che sia una strada buona.

GIORNO 34: Lucio Dalla – Futura

GIORNO 35: Bon Jovi – Living on a prayer

GIORNO 36: Gabriel Fauré – Cantique de Jean Racine op. 11

Libertà va cercando (Musicameron 32 – 33)

Buon 25 aprile.

A chi ricorda, tra le quattro mura di casa. A chi ha qualche lontano (ormai) parente al cui cippo vorrebbe portare un fiore. A chi ha deposto le corone, stavolta senza tanti discorsi, ma forse sarebbe meglio così sempre. A chi magari non canta Bella Ciao alla finestra, ma nel cuore da sempre.

E anche a chi non festeggia. Perché se è libero di non festeggiare, di dire apertamente che non è d’accordo, quella libertà la deve ai tanti che sono morti nella Resistenza. Non che non ci siano stati banditi o disonesti. Ma il punto è che hanno scelto di andare contro, di lottare perché tutti fossero liberi di parlare, di esistere, di vivere secondo la propria coscienza e non quella del duce di turno, vivere senza paura, soprattutto.

Celebrare la libertà ritrovata non vuol dire sputare sulle tombe dei vinti. Questo è un giorno di memoria, di ricordo, perché la guerra è sempre una tragedia, anche quando si vince. Mettetevelo in testa.

Qui
vivono per sempre
gli occhi che furono chiusi alla luce
perché tutti
li avessero aperti
per sempre
alla luce.

(Giuseppe Ungaretti)

Buon 25 aprile.

GIORNATA 32: Anonimo, versione degli Swingle Singers – Ciao, bella ciao

Quello che segue non è un canto della Resistenza, ma parla di montagna, di bellezza, di fatica e di un rifugio. Quando ero bambina sono stata insieme ai miei genitori sull’Osternig, monte sopra Ugovizza al confine con l’Austria.  Mi è rimasta impressa profondamente l’immagine del bosco che all’improvviso diventava pascolo, la visuale si apriva e faceva intravedere la sagoma del rifugio contro il cielo, fino a quando arrivavi sulla sella e si spalancava la valle austriaca sotto ai tuoi piedi. Per cui ogni volta che sento questo canto, penso a quel posto. E viceversa.

Ricordo anche bene come mi avesse stupito il fatto di poter passare da uno Stato all’altro facendo un passo, in mezzo all’erba – del resto, era ancora l’epoca delle file con i documenti in mano, del denaro da cambiare, dei telefoni pubblici. L’altrove era un concetto molto ben definito anche per una bambina.

Là in montagna il confine non si vede, non si sente. Forse è stato allora che ho capito che i confini li tracciano gli uomini, sempre, che siano mentali o materiali. E per questo, appena posso, vado in montagna, per respirare libertà.

Ed è quello che farò appena sarà possibile.

GIORNATA 33: Bepi De Marzi – Rifugio Bianco