The King’s Singers – Friends from Tallis to Beatles

Entri nel foyer e già comprendi che non sarà un concerto qualunque, quello che inizierà di lì a pochi minuti.

Perché?

Fondamentalmente dal colore delle chiome. Nero. Bruno. Pochi biondi, ma a ben guardare ce n’è anche di quelli. Rossiccio, tinto o meno, non stiamo ad indagare. Insomma, la percentuale di grigio è notevolmente ridotta. Eppure il titolo del concerto parla chiaro: from Tallis to Beatles, da Tallis (compositore inglese vissuto a cavallo tra XVI e XVII secolo) ai Beatles – e questa sarebbe la parte nota della faccenda. Magari chissà, tanti sbarbatelli avranno pensato “boh, chissà chi è questo Tallis, forse un cantautore americano mezzo sconosciuto, ma sì, chi se ne importa”. Ne dubito, francamente.

Ci deve essere qualcosa di speciale, perché tanti giovani affollino il teatro di lunedì sera, per uno spettacolo di un gruppo a cappella. Un gruppo. Forse IL gruppo, diamo ai King’s Signers quello che è dei King’s Singers. Sulla piazza dal ’68 ad oggi, pur con vari cambi di formazione, 120 concerti in giro per il mondo solo nel 2011 (tralasciando registrazioni, apparizioni televisive e varie). Allora forse la molla è sufficiente a schiodare dalle orecchie l’immancabile iPod e a immergersi nel buio di una sala dove, voilà!, ad un certo punto entrano questi sei personaggi.

Grigiovestiti, camicia bianca, cravatta crema, scarpe di cuoio, tutti rigorosamente uguali, distinguibili soltanto per l’altezza e la presenza (o assenza!) di capelli in testa.

E dalle voci.

E che voci…

Nel giro di un minuto, è magia. E non è del tutto scontato, se si pensa che il primo brano è Haec Dies, mottetto a sei voci del suddetto Thomas Tallis. Musica non esattamente immediata, per le orecchie moderne. Ma potente, senza dubbio. Tanto che viene quasi naturale pensare che il suo allievo, William Byrd, potesse aver ragione a dire, alla morte del suo mentore “Tallis è morto, con lui muore la musica” (Ye sacred muses).

Conquistato il pubblico, anche grazie alla presentazione dei brani letta (coraggiosamente!) in italiano, si passa a portate più stuzzicanti, come i geniali Nonsense di Goffredo Petrassi, su ridicolissimi testi (tradotti in italiano) di Edward Lear. Ridicoli sì, ma musicalmente parecchio complessi, molto “contemporanei” ma senza dubbio efficaci – anche per la presenza scenica (molto british!) dei sei cantori.

Chiude la prima parte un assaggio di musica più “rilassante”, anche se forse meno originale, simpatiche e scorrevoli arie tratte dalle operette di William S. Gilbert e Arthur Sullivan.

Deciso il cambio di registro della seconda parte, con arrangiamenti strappa-applausi di quattro canzoni popolari delle isole britanniche (tra cui un Greensleeves semplicemente da brividi), Obla’di obla’da (Beatles), una versione commovente di That lonesome road di James Taylor e una chicca vocal jazz, The recipe of love.

Successo? Trionfo! Tanto che, dopo più di una chiamata, un bis e scroscianti applausi, i nostri sei escono nuovamente: ringraziano e si scusano (!) perché di fatto non avrebbero più brani da eseguire, stanno studiando nuovi pezzi addirittura durante i viaggi in aereo, tuttavia riescono a regalare al pubblico presente ancora un gioiellino, lo spiritual Roll Jordan Roll.

Due considerazioni: primo, che la buona musica, eseguita e presentata bene, attira ed emoziona profondamente le persone a prescindere da stile, genere, epoca, condizione sociale; secondo, che anche in una regione per certi versi chiusa e refrattaria ai cambiamenti e diffidente nei confronti della creatività, le persone sanno apprezzare e riconoscere il valore di una proposta culturale di alto livello.

Con l’augurio che ce ne siano molte altre ancora, di queste occasioni!