Back again

Esisto ancora. Dopo mesi in cui la mia vita ha cambiato sostanzialmente forma, colore e posizione. Più di quanto normalmente non avvenga, diciamo. E in meglio, per quanto mi riguarda.
Poco da fare, mi trovo in quell’epoca della vita nella quale tutti mutiamo pelle e viviamo trasformazioni macroscopiche – anche se ho cominciato ad accettare che in realtà noi mutiamo di continuo, dalla più recondita delle cellule del nostro corpo alla nostra posizione nel mondo, ai pensieri e al nostro stato civile (quest’ultimo non è il mio caso, prima che qualcuno se lo chieda).

Comincio ad ogni modo ad apprezzare questo rollio continuo. In fondo, si può sempre andare in una direzione migliore (anche se in questo periodo è difficile, soprattutto da italiani in Italia, solo sperare in mutamenti di questo tipo, ma pazienza).

Meno facile è accettare le perdite.

Una bravissima collega mi ha raccontato qualche settimana fa la storia di una studentessa di strumento vittima di un grave incidente stradale: aveva avuto dei danni a livello neurologico che si erano ovviamenti manifestati anche nel suo modo di suonare, sottoforma di una grande tensione muscolare e difficoltà a rilasciare e rilassare. Passatemi i termini, perchè non ricordo con esattezza la spiegazione precisa che mi diede la collega, ma in sostanza questo accadeva perché l’istinto primordiale dell’uomo, che ha sede nelle zone più “antiche” del cervello, è di trattenere, mentre la capacità di lasciare risiede nella corteccia, quindi è una conquista più recente.

Quest’ultima informazione mi ha molto colpita perché – lo ammetto – a livello emotivo il “lasciar andare” è un gesto che mi costa molta fatica, e invidio tanto le persone che riescono a farlo senza troppi problemi. Lasciar andare un pensiero, per quanto bello, un luogo, un’emozione… ma soprattutto lasciare andare le persone.
Fatico immensamente ad accettare che una persona, anche a livelli differenti di confidenza, possa aver esaurito quello che poteva essere il suo ruolo nella mia vita. Mi dispiace pensare che certe cose fatte, dette, vissute, provate, non possano ripetersi, che i rapporti interpersonali possano logorarsi a tal punto da non poter essere più recuperati; o peggio, che a causa di un malinteso, di un equivoco, di eccessivo orgoglio, possano spezzarsi di netto. Per quanto tenue potesse sembrare quel legame.

Al che, spunta una riflessione: in che modo costruiamo le nostre cerchie di relazioni? Come facciamo a stabilire (anche inconsciamente) un valore per ogni rapporto, tale da farci scegliere istintivamente con quali persone avere a che fare e quali lasciar perdere? Molto spesso mi è capitato di sentire un legame forte di stima e amicizia per persone che dal canto loro non avevano per me che una scarsa considerazione, e tanto più mi incaponivo a coltivare quei rapporti tanto più queste si facevano sfuggenti e a tratti perfino maleducate o meschine. E ciononostante è stata dura voltare pagina e chiudere un rapporto che mi faceva prevalentemente soffrire.

Saranno domande da un milione di dollari, che richiedono libri interi per essere soltanto analizzate, senza speranza di trovare risposte certe, ma non posso fare a meno di pormele, osservando la realtà che vivo e i comportamenti di molti soggetti attorno a me.

 

DANNATO VIVERE

Negrita

Avrei bisognodi sfogarmi e non so più nemmeno piangere.
Com’è difficile aspettare quando arrivi alla mia età.
Dovrei Parlare con qualcuno e non c’è campo in tutto l’etere.
E sento il peso delle stelle che non ho afferrato mai.
Però è qualcosa che ho provato e una volta tornerò

A SCIVOLARE Giù…. NELLA CORRENTE
PER RISALIRE SU….DOLCEMENTE
IRRESISTIBILE…STUPENDO INCONCLUDENTE
DANNATO VIVERE…. DANNATO VIVERE

E penso al tempo che ho sprecato a far programmi senza agire mai.
Stordito, pallido e incazzato, non importa sono qua.
E ho camminato sul pianeta scalzo, disperato e libero.
E certe cose che ho provato non le proverò mai più.
Ma ho già volato per amore e una volta tornerò

A SCIVOLARE GIù

Waiting, waiting, I’m waiting for the Sun…

Capodanno

Ci sono cose che rassicurano e infastidiscono allo stesso tempo. Alcuni li chiamano riti, tradizioni, usanze. Il segnale che la vita continua imperterrita facendo il suo giro nonostante tutto ciò che accade sulla faccia della terra, di buono o di cattivo. E la festa di Capodanno è forse la manifestazione più evidente e immancabile nelle culture umane. Magari con tempi diversi, in modi diversi, ma presente dovunque e in ogni tempo, per dare un taglio netto col passato e illuderci che il futuro sarà diverso, che dalla mezzanotte di un certo giorno dell’anno potremo sbarazzarci di tutto il male capitato o fatto e riscrivere da zero la nostra esistenza.

Non amo fare gli auguri telematici, ma vorrei comunque condividere alcune parole che amo molto, nella speranza che regalino serenità a chi dovesse leggerle. Le ho sentite per la prima volta nella prima infanzia, guardando un film che ancora mi emoziona e mi diverte moltissimo: Operazione Sottoveste, di Blake Edwards, 1959. Commedia certo, ma più sottile di quanto possa apparire, soprattutto nella scena di Capodanno, quando sul ponte della nave durante il banchetto qualcuno intona proprio questo canto…

 

Buon anno a tutti… davvero.

Auld Lang Syne

Should auld acquaintance be forgot,
And never brought to mind?
Should auld acquaintance be forgot,
And days o’ lang syne!

Chorus:
For auld lang syne, my dear
For auld lang syne,
We’ll tak a cup o’ kindness yet
For auld lang syne!

We twa hae run about the braes,
And pu’d the gowans fine,
But we’ve wander’d mony a weary foot
Sin’ auld lang syne.

We twa hae paidl’t in the burn
Frae morning sun till dine,
But seas between us braid hae roar’d
Sin’ auld lang syne.

And there’s a hand, my trusty fiere,
And gie’s a hand o’ thine,
And we’ll tak a right guid willie-waught
For auld lang syne!

And surely ye’ll be your pint’ stoup,
And surely I’ll be mine!
And we’ll tak a cup o’ kindness yet
For auld lang syne!

 

 

Labirinto

– e ora qualche passo
da parete a parete,
su per questi gradini
o giù per quelli,
e poi un po’ a sinistra,
se non a destra,
dal muro in fondo al muro
fino alla settima soglia,
da ovunque, verso ovunque
fino al crocevia,
dove convergono,
per poi disperdersi
le tue speranze, errori, dolori,
sforzi, propositi e nuove speranze.

Una via dopo l’altra,
ma senza ritorno.
Accessibilie soltanto
ciò che sta davanti a te,
e laggiù, a mo’ di conforto,
curva dopo curva,
e stupore su stupore,
e veduta su veduta.
Puoi decidere
dove essere o non essere,
saltare, svoltare
pur di non farsi sfuggire.
Quindi di qui o di qua,
magari per di lì,
per istinto, intuizione,
per ragione, di sbieco,
alla cieca,
per scorciatoie intricate.
Attraversi infilate di file
di corridoi, di portoni,
in fretta, perché nel tempo
hai poco tempo,
da luogo a luogo
fino a moli ancora aperti,
dove c’è buio e incertezza
ma insieme chiarore, incanto
dove c’è gioia, benché il dolore
sia pressoché lì accanto
e altrove, qua e là,
in un altro luogo e ovunque
felicità nell’infelicità
come parentesi dentro parentesi,
e così sia
e d’improvviso un dirupo,
un dirupo, ma un ponticello,
un ponticello, ma traballante,
traballante, ma solo quello,
perché un altro non c’è.
Deve pur esserci un’uscita,
è più che certo.
Ma non tu la cerchi,
è lei che ti cerca,
è lei fin dall’inizio
che ti insegue,
e il labirinto
altro non è
se non la tua, finché è possibile,
la tua, finché è tua,
fuga, fuga –

(Wislawa Szymborska)

Ci sono sentimenti che è difficile spiegare a parole. Ci sono giorni che vorresti cancellare e ricominciare daccapo, senza che sia successo niente di grave per averli tanto in odio, semplicemente perché senti di averli sprecati. Ti svegli, ti affanni, corri qua e là, lavori al computer, partecipi a riunioni e incontri, fai da mangiare, ti butti a letto e l’unica cosa che davvero desideri è aprire le pagine di un’altra vita e cassare tutto quello che hai fatto fino a quel momento. Perché non ti riconosci più nel tuo passato e perciò non riesci ad immaginare neanche un minuto del tuo futuro, non importa quanto sia piena la tua agenda.

Vorresti scappare.

Scappare da tutto ciò che la gente si aspetta da te, che pretende da te. Scappare dalle pance che crescono, dai bambini che gridano e dalle domande inopportune, da tutto ciò che “è nella natura delle cose, prima o poi succede a tutti”, dal fatto che per essere considerata una donna devi sposarti e fare figli altrimenti ti mancherà sempre qualcosa.

Fuggire non si può. E tocca per forza fare i conti con il fatto che sarà sempre la società ad avere la meglio su di noi, in un modo o nell’altro. E che i sogni è meglio metterli nei cassetti, perché a tenerli vivi troppo a lungo ti si spacca il cuore.

La magia del ritmo

Non è esattamente un argomento adatto alla stagione estiva del cervelloedgar wilòl, ma dopo aver letto le dichiarazioni di una certa persona abbondantemente capelluta mi sono tornate alla mente le lezioni del corso di pedagogia Willems e le infinite discussioni filosofiche che in quelle ore si sviluppavano (forse era solo dovuto alla mancanza di zuccheri in attesa del pranzo, ma ad ogni modo ne venivano fuori delle belle).

La domanda più banale e bastarda era appunto la seguente: cos’è il ritmo? So che state ancora sorbendo il caffè e l’unico ritmo cui pensate è quello dello stomaco, ma su, cerchiamo di darci un tono intellettuale pur con la tazzina in mano.

Edgar Willems lo definisce un “elemento premusicale” perché è solo dalla combinazione di questo con i suoni che può nascere una melodia e quindi il fenomeno musicale… ma in concreto, se dovessimo spiegare a parole cos’è il ritmo, saremmo in difficoltà.

Perché il ritmo è birichino e sfugge alle catalogazioni. Non è battere le mani con la musica e neanche camminarci sopra (quello è seguire le pulsazioni, o il tempo musicale), non è neanche detto che sia il ritmo delle note di una canzone o melodia, perché perfino il piccione che adesso gironzola sul mio davanzale lo fa a ritmo, un ritmo libero, senza schemi, imprevedibile ma pur sempre ritmo. C’è il ritmo del cuore, che varia a seconda delle nostre attività, ci sono moltissimi ritmi inudibili che comunque esistono e entrano di diritto in questo magma. E intendiamoci, un ritmo lento è pur sempre ritmo, non si può certo dire che una ninnananna di ritmo non ne abbia (al contrario, è proprio la regolarità  ritmica che porta ad assopirsi!!).

E allora?

Forse possiamo prendere per buona l’idea che il ritmo (sonoro in particolare) è derivato dal movimento, dall’energia che viene applicata a qualcosa – il nostro camminare, il cuore, uno strumento musicale, i suoni della voce e così via. Ne possiamo mettere tanta (e diventa un flusso frenetico e coinvolgente), abbastanza o poca, a seconda delle nostre sensazioni, ma sempre di energia si parla.

Pensare che l’unico ritmo degno di questo nome sia quello che ci fa saltare come cavallette ad un concerto di Jovanotti (visto che è stato chiamato in causa dal capellone, con tutta la stima per quello che ha fatto e farà Lorenzo come cantante e musicista) insomma è riduttivo e fuorviante. Forse lo pensiamo perché viviamo in una società che ha fatto della velocità il suo idolo, che ritiene che una musica non abbia ritmo se non ci si può ballare sopra, se non si battono le mani, se non ci si scatena insomma in un baccanale.

Intendiamoci, sono la prima a vivere spesso male i concerti di musica classica, perché per educazione e abitudine avrei l’impulso di mettermi a ballare, qualsiasi musica vada ad ascoltare. Però ci vuole equilibrio. Come è meravigliosamente liberatorio lasciarsi andare ai ritmi dell’elettronica o della dance, quasi fossimo tutti una versione profana dei dervisci rotanti, tanto è necessario avere degli spazi di rilassamento, di decompressione, di esaltazione intellettuale o spirituale e soprattutto di silenzio, nel corso delle nostre giornate. E’ un po’ quello che tenta di far capire (in maniera spassosa) nel film “Quasi Amici” il protagonista Philippe Pozzo di Borgo al suo badante Driss

Non sortisce molti effetti, a dire il vero, come accade quasi sempre ai musicisti classici che tentano di far capire ai loro amici e conoscenti quanto sia bello quello che loro fanno ogni giorno (sarà istinto di sopravvivenza? mah!). Però qualche seme lo getta. E se giustamente la “musica della vita” di Driss resterà quella degli Earth Wind &Fire, non per questo sarà preso dalle convulsioni all’ascolto di un brano di… beh, facciamo di Beethoven, ad esempio.

Mi piacerebbe, da musicista e insegnante, e anche da zia, che anche noi adulti avessimo la libertà mentale che hanno i bambini nei confronti dell’arte: è vero che il livello di ascolto consapevole non sempre è eccelso (ma quando siamo bombardati di suoni di ogni tipo in ogni momento della nostra vita necessariamente attiviamo dei meccanismi di autodifesa, ossia chiudiamo le orecchie), ma, se non guastati dai preconcetti che gli adulti inculcano loro, i bambini riescono a godere di moltissime cose che molti adulti riterrebbero noiose o cervellotiche. Si muovono con lo stesso piacere sulle canzoni di Danza Kuduro e Bizet (provare per credere!), sviluppando pian piano gusti personali senza troppi condizionamenti teorici. E non è cosa da poco.

Balkanika – con le parole di Paolo Rumiz

Riporto con enorme piacere un articolo che ho scovato grazie al mio ex prof di religione sul blog da lui curato http://oradireli.myblog.it

Avendo masticato un po’ di lingue dell’Europa orientale e camminato per varie strade (anche se non in maniera così avventurosa come fa Paolo Rumiz… anche una piccola avventura balcanica l’ho avuta anch’io), insomma, non posso fare a meno di sorridere e quasi commuovermi. Perché è vero, i Balcani sono tutto questo… e altro.

Articolo tratto da Osservatorio Balcani e Caucaso

Che cosa sono i Balcani? Il giornalista e scrittore Paolo Rumiz cerca di rispondere a questa domanda lasciandosi trascinare dai ricordi, scrivendo “note bastarde, voci e frequenze che bucano i confini, ignorano i visti, i passaporti e le lingue, per andare dritti al cuore dell’uomo”

Nell’ambito della manifestazione “L’Europa che non conosci. Viaggi, racconti e immagini tra il Trentino e i Balcani”, lo scorso 27 giugno si è tenuto un incontro dal titolo “Un caffé da Lutvo” con l’attrice Roberta Biagiarelli e il presidente del Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani Michele Nardelli. Per l’occasione, lo scrittore Paolo Rumiz ha inviato un suo scritto inedito di grande fascino di cui è stata data lettura nella serata con l’accompagnamento musicale del violinista Mario Sehtl.

Potrei parlarvi di odio e scannamenti, di profughi e kalashnikov; dirvi di una terra lacerata con l’occhio gelido della geopolitica. Invece no. Vi dirò dei suoni di un mondo inquieto, dell’acustica che nasconde l’anima dei suoi luoghi. La mia anima è piena di quelle frequenze. Essa li cerca come Orfeo e la sua cetra, gli va dietro oltre il confine del mondo dei vivi, là dove abita Persefone. Sente che quei suoni partigiani resistono alla grande omologazione globale, alla tirannia del pensiero unico.

Sono figlio della frontiera. Italiano di lingua, tedesco di cultura, slavo di stomaco e fegato, turco di canto e di cuore, ebreo di fascinazione. I Balcani abitano nel mio stesso cognome, che contiene la radice “Rum “di Rumelia, la parte europea – romana – dell’impero ottomano. Credo, di conseguenza, di avere dentro di me qualcosa che mi aiuta a sentire nel modo giusto quello spazio del mappamondo.

E allora cominciamo così a caso, là dove mi porta la memoria del lungo viaggiare. Cominciamo da due ex belle donne di Novi Sad, alte sul metro e ottanta, che si avvicinano a un fisarmonicista seduto davanti al Danubio, gli mettono in mano una banconota, gli dicono “dài, facci piangere”, gli fanno spremere dallo strumento oceani di tristezza e secoli di sradicamenti, ballano e si abbracciano senza badare ai passanti.

I Balcani sono questi lampi di immagine. Cose come un belgradese che esce per strada esultando per una buona notizia, assolda tre zingari armati di fiati e tamburi, e assieme a loro gira la città con una bottiglia di rakija in mano e un codazzo di passanti che ballano ascoltando la sua musica.

In quel mondo trionfa la condivisione teatrale di gioia e malinconia. Come quella di un greco che, in una locanda di Salonicco, festeggia un buon affare frantumando una montagna di piatti, metodicamente, uno a uno, tra gli applausi dei clienti e del taverniere, e poi, colto da improvvisa nostalgia di qualcosa, va a nascondersi in un locale “proibito” per estenuarsi in un assolo di rebetiko, ginocchia piegate, braccia larghe e sigaretta in bocca, davanti a una cantante rauca venuta da Smirne e un suonatore di buzuki rugoso come un Cheyenne.

Balcani sono una stazione austriaca con una porta a vetri che si spalanca con un colpo di vento e spinge dentro la sala d’aspetto una giovane zingara dalla magnifica treccia corvina, gonna lunga e vermiglia da flamenco, il suo neonato in un fagotto al fianco, che chiede soldi con occhi di fuoco e lascia gli astanti senza fiato.

Balcani sono una giovane turca che strappa una storia d’amore alla tua ostinata reticenza occidentale, la ascolta in silenzio col viso rigato di lacrime, alla fine ti dice “Hai la lingua di miele, straniero”, e poi per ringraziarti canta per te qualcosa che ti ara l’anima, un motivo di nome “Ayrilik”, che vuol dire “dolce mancanza”, con una voce che pare un flauto di canna nel deserto.

E ancora, il trans-danubio verso il confine della Vojvodina, con binari morti, zingari, cavalli, letamai e zucche troppo grandi sulla strada, in una nebbia in cui tutto fluttua come in un bicchiere d’acqua e Pernod; oppure una cameriera slava, capelli corti e nastro nero al collo, che ti fa l’occhiolino apertamente in una birreria lungo una strada della Pannonia.

Balcani è camminare nel fango verso le prime propaggini dei Carpazi, là dove finiscono i treni d’Occidente e nei binari inizia lo scartamento “sovietico”, diverso di pochi ma fatali centimetri da quello europeo. Balcani sono la prima confusa percezione degli spazi dell’Est, freddo monosillabo totalitario che esclude la parola, più dolce, di “Oriente”.

Rivedo, ora, una contadina che, nonostante le unghie sporche e l’odore di aglio, mi stende con una sciabolata di occhi torbidi, fianchi inguainati di nero e maturi melagrani ansimanti; visione che dura solo un attimo, fino a quando lei non si schiarisce la voce emettendo una specie di ruggito e, dopo aver sputato, non chiama qualcuno in cucina con voce da camionista.

Ecco, ora le immagini e i suoni vengono senza più difficoltà. Sento il canto monotono dei Sufi Bektashi in Albania, nelle valli dimenticate dove i Romani tracciarono la via Egnazia. Il silenzio di una nevicata sui minareti di Sarajevo e i gridi di centinaia di rondini una sera sui Monti Rodopi, in Bulgaria; talmente tante che è impossibile prender sonno. E poi ancora un villaggio della profonda Macedonia – Strumica – dove al tramonto i contadini depongono la vanga per prendere tromba e clarino e la valle intera si riempie di musica come se Dioniso stesso la abitasse con la sua corte.

Balcani. Sono il bordone interminabile di un archimandrita in una chiesa della Dobrugia in Romania, dove a distanza vedi un nero serpente di uomini e donne affluire sulle colline, in fila per uno, al il funerale di un uomo pio. Balcani sono una banda di Rom capaci di suonare 48 ore di fila a una festa di matrimonio nella polvere della Puszta ungherese; sono un’armata di duecento cornamuse – non so se avete un’idea di che cosa significa – che suonano insieme sui monti della Stara Planina, gonfie come l’otre dei venti di Odisseo.

Balcani sono il periplo mediterraneo di una parola araba, “Sevdah”, che significa “negra bile”, la grande madre dei salti umorali, della nostalgia e dell’innamoramento, parola che con l’armata islamica raggiunge la penisola iberica e si ibrida col latino trasformandosi in “Saudade”; quella “dolce malinconia” (di una terra perduta) che secoli dopo gli ebrei, esiliati dai re cattolici, porteranno con sé nella nuova terra, ancora una volta islamica, l’impero turco, per generare quegli struggenti capolavori di musicalità popolare che sono le “Sevdalinke”, parola dall’etimo trasparente, le canzoni d’amore della Bosnia.

Balcani sono una pastorella bulgara di nome Valja, che di cognome fa anche Balkanska. Una bambina di mezzo secolo fa che canta seduta su un muretto e affascina due stranieri a caccia di musiche antiche. E’ quel suo canto millenario dal ritmo impossibile che viene catturato da un registratore e spedito nello spazio in un satellite, assieme ad altre canzoni del pianeta Terra, per consegnare agli Alieni qualche testimonianza sublime delle voci del nostro mondo.

Balcani sono il frusciare delle foglie di una foresta impenetrabile di nome Perucica, persa nelle gole del più segreto Montenegro, una selva primigenia dove si dice abiti la sorgente dell’energia creatrice e distruttrice di un mondo. Sono, anche, il mormorio di Sava, Drava, Tibisco e Timis che vanno a confluire in un’unica, sterminata terra di acque e di popoli, in bilico fra Ungheria, Serbia, Croazia e Romania, paradiso dei migratori, degli anarchici e dei battellieri.

Balcani sono il greco Panaiotis che in una notte senza luna ti porta sulla montagna a vedere un uliveto più antico di Cristo e ti fa sentire lo scricchiolio delle stelle d’ottobre sopra una prateria di rosmarino; sono delfini che accompagnano in silenzio la tua vela verso il fondo del golfo di Corinto, fra l’Erimanto, l’Elicona e il Parnaso carichi di neve fuori stagione; sono lo stormire delle grandi querce di Dodoni in Epiro, alberi sacri dove il fauno si sente ancora a suo agio.

Balcani sono quella continguità di mare e montagna che scatena i venti gelidi di Borea, la scarpata che precipita sulla Dalmazia, terra di marinai scesi da valli impervie; sono le Bocche di Cattaro (Kotor), il fiordo dell’ultimo Adriatico dove i tuoni rimbombano anche quattro volte e il fondo della baia si nasconde tra le rocce come dietro un iconostasi durante la celebrazione dei santissimi misteri.

Balcani sono il canto di Ljubo, il battelliere, che entra con la chiatta lungo il Danubio fin dentro le ombrose porte di Ferro, la stretta montagnosa fra Serbia e Romania; sono il suo ritmare le note di un “kolo” per avvertire gli amici del suo arrivo, sono l’eco che cambia dopo la grande diga di Turnu Severin, col vento del Sud che invade la pianura e il fruscio delle spighe d’orzo a Brza Balanka.

Balcani sono lo sferragliare di un treno d’inverno che, passato il fiume d’Europa su un lungo ponte di ferro, entra in Bulgaria, cerca le montagne in mezzo a muraglie di neve. Un vecchio Orient Express pieno di spifferi gelidi dove una donna sui cinquanta mai vista prima, seduta di fronte, ti chiede dopo cinque minuti “sei felice?” e tu ti accorgi che erano vent’anni che nessuno ti faceva quella domanda.

Balcani sono anche il Bosforo con la neve, quando la gola si trasforma in un fiordo norvegese, tra le grida dei muezzin e il tagliente ululato del vento; sono la tramontana che spazza il ponte di Galata, e un vecchio che, nelle stradine del colle di Pera, senza una parola ti porge un thè color dell’ambra perché ha capito che hai freddo.

Balcani è accorgersi che tutto finisce e tutto si capisce lì, nelle vie segrete della seconda Roma, Costantinopoli, dove la Grande Porta ha fatto il nido con la naturalezza di un granchio che sceglie per casa una conchiglia vuota, in quella città dove si va per annusare l’odore di acciughe, di sgombri e pesce spada affumicato, solo per ascoltare la ressa sui moli, il muggire del ferry nella nebbia, il cigolio dei pontoni e le urla dei gabbiani reali sul bazar. Nella mia ballata in versi “La cotogna di Istanbul”, dico che è impossibile capire la Bosnia, intesa come quintessenza dei Balcani, se non ti immergi e non ti perdi per una volta almeno nei vicoli del Corno d’Oro.

Balcani, una terra di cui non puoi capire “il suo destino, la sua soggezione / a un potere lontano e imperscrutabile / il suo odore di cuoio e sigarette / l’occhio caucasico delle sue donne / la sua vitalità e la sua tristezza / non puoi capire, se sei forestiero / la pazienza infinita dei suoi vecchi / e il rito misterioso del caffè / che va centellinato sul divano / se non vieni sul Bosforo e non guardi / dai moli di Beyoğlu e Karaköy / il fiume umano che arriva dall’Asia / e nella notte non vedi il pulsare / intermittente del piccolo faro / di Kandilli Feneri, appena oltre / le luminose vetrate e il giardino / del palazzo reale di çiragan”.

E davvero non puoi capire nulla dei Balcani, se non vedi quel piccolo lume che ti chiama, luce dispersa alla fine del mondo, la sola cosa immobile in un traffico di navi, pesci, uomini e gabbiani.

Per me, e non solo per me, quel mondo è riassunto ancora da uno stato che non c’è più, di cui si pronuncia il nome solo con una “ex” davanti: la Jugoslavia, di cui rimane vivo, ad accomunare controvoglia i Paesi nati dalla sua frammentazione, il solo prefisso telefonico “0038”. Ho seguito la guerra spaventosa che ha lacerato la vecchia federazione, e ne avrei di cose da raccontare. Ma se mi chiedono che cos’era quel mondo, racconto una piccola storia. Questa.

Un giorno capitai a Ohrid in Macedonia a bordo della mia vecchia Renault. Sarà stato il 1985 e sembrava il momento più felice del Paese. Tito era morto, i controlli alle frontiere erano meno severi, da Lubiana al confine greco impazzava la libertà di parola, c’erano feste e belle donne dappertutto, e solo pochi pessimisti cominciavano ad avvertire il male oscuro che di lì a sei anni avrebbe mandato a picco la repubblica federata. In questo clima giunsi in paese. Un posto incantevole, affacciato su uno dei laghi più belli d’Europa, a due passi dall’Albania ancora blindata nel regime.

La macchina era guasta, proseguiva tossicchiando a balzi, e io dovevo urgentemente registrare le cosiddette “puntine”. Così andai in un’officina a chiedere per favore un cacciavite e una chiave inglese per fare il lavoro per conto mio. C’erano amici che mi aspettavano per cena a Salonicco e volevo fare in fretta. E lì accadde l’imprevedibile. Sentita la richiesta, i meccanici interruppero il lavoro e si consultarono, discutendo animatamente. Non capii subito che, trattandosi di un’impresa autogestita, dove gli operai stessi erano proprietari degli strumenti di lavoro, la mia richiesta aveva provocato un’assemblea.

Il problema era di lana caprina. La tradizionale ospitalità balcanica impediva che io fossi abbandonato al mio destino, ma nello stesso tempo i regolamenti dell’autogestione proibivano l’alienazione di chiavi inglesi e affini. La mia richiesta era impraticabile e i meccanici stavano letteralmente sbranandosi per fornirmi una via d’uscita. L’assemblea durò un’ora e mezza, e io vi assistetti affascinato fino a quando il capo della masnada venne da me con la soluzione. Il lavoro l’avrebbero fatto loro, e gratis.

Nel frattempo era arrivato un melone, cui seguì un piatto di prosciutto salato. Era chiaro: quel giorno non sarei arrivato a Salonicco. Quanto si annunciava era assai meglio. Una vecchia nerovestita arrivò con olive, formaggio caprino e della rakija alle prugne, e intanto il lavoro attorno alla mia macchina aveva paralizzato l’azienda. I meccanici erano tutti lì, a metterci le mani fumando e scambiandosi battute sotto il sole ardente di Macedonia. Giunsero così le due del pomeriggio, ora di fine lavoro (in Jugoslavia vigeva l’orario unico di otto ore dalle sei dal mattino) e la macchina mi fu puntualmente riconsegnata. Ringraziai, senza sapere ancora cosa mi aspettava.

Quello che accadde è che il capo dell’officina – un turco di antica ascendenza ottomana – mi invitò a casa, e poiché costui aveva preventivamente allertato la moglie, quando vi arrivai, già bello allegro, trovai la tavola imbandita e due vecchine cartapecora – anch’esse in nero vedovile – intente a fare la spola con la cucina. Si sedettero solo gli uomini: l’azienda autogestita, il padre del capo, e l’italiano in transito. “Ti abbiamo fatto il kebab” mi fu detto e scoprii qualcosa di assolutamente diverso a quanto avevo mangiato finora. Non più un panino con i soliti “trucioli” di carne tolte col coltello dal girarrosto, ma una “pita” del diametro di un metro dove i frammenti di carne erano stati distesi con uno strato uniforme.

Bevemmo altra rakija propiziatrice, il capo si pulì le manone nere d’olio di macchina, arrotolò con vigore il doppio strato di pita e carne arrosta formando un cilindro ben pressato che affettò a medaglioni, poi dispose i dischi spiraliformi su un grande piatto di portata di rame. Infine mise in mezzo al piatto due ciotole, una con salsa di peperoncino infuocato e una – più grande – con yogurt per spegnere l’incendio procurato dalla prima. La distribuzione del cibo fu un rito compiuto con serietà cerimoniale, poi esplose l’allegria.

Quella fu solo la prima di molte portate. Il pranzo divenne cena senza soluzione di continuità, al tramonto vennero trombe e clarinetti, e quando andai sul retro a far pipì scoprii che la mia macchina era stata portata nel cortile della casa e lucidata a dovere, mentre donne invisibili mi avevano preparato un letto con lenzuola ricamate di lino. Rinunciai alla Grecia, rimasi a Ohrid tre giorni e non fui mai sfiorato dal dubbio che dì lì a poco quel paese delle meraviglie sarebbe franato nel sangue.

Ecco, questi sono per me i Balcani. E perdonatemi se non vi ho parlato di guerre e secessioni, ma di note bastarde, voci e frequenze che bucano i confini, ignorano i visti, i passaporti e le lingue, per andare dritti al cuore dell’uomo.

Notte Bianca – parte 1

“Yeeeeeeh!! Un hurrà per la sposaaaaaa!! Uuuuuhhh!!”

Elena applaudiva giusto perché qualcuno la stava fotografando e le seccava di riuscire con il broncio in mezzo a tante facce festaiole. A dire il vero si chiedeva anche perché avesse confermato la sua partecipazione, lei che non aveva nemmeno voluto che le facessero i tradizionali scherzi di laurea. Aveva detto sì con un sospiro, perché in fondo era testimone (anche se Sara le aveva esplicitamente detto che non avrebbe firmato il registro della parrocchia, essendo la “seconda” testimone) e perché i lunghi anni di amicizia con la sposa le impedivano di dire e fare qualcosa che potesse dispiacerle. Così si era spinta al punto da collaborare alla serata, un tripudio di veli e oggetti rosa shocking più o meno espliciti, battutine e cocktail. E per colmo di sventura era pure astemia, quindi del tutto fuori luogo in mezzo all’ebbra truppa delle “nubiliste”.

Ma passata la prova per la consegna del regalo (l’ennesimo completino intimo sexy) decise che ne aveva abbastanza.

Prese per un braccio Sara, cercando di indossare la sua migliore espressione di sofferenza stoica:

“Senti, mi dispiace un sacco ma adesso andrei… non mi sento affatto bene… sai…”

Sara per un attimo parve non capire, forse per i troppi bicchieri di Havana Cola ingurgitati a stomaco vuoto. Con un mezzo sorriso le rispose:

“Ma… nooooooo, coooomeee?? Proprio tu… ma sei sicuuuuuura di non poter… restaaaaare?? “

Andarono avanti per qualche minuto dicendosi come era divertente la serata e quanto dispiacesse ad entrambe che Elena se ne andasse prima, ma dopo un po’ riuscì a svicolarsi e mise piede fuori dal locale.

Aveva appena smesso di piovere, quella pioggia rabbiosa ma breve di inizio giugno che ti fa rabbrividire se non hai una giacca ma che rende tutto più nitido e promette per l’indomani un cielo cobalto e chissà, forse qualche tuffo in costiera. Fossero stati anche 50 gradi e il 100% di umidità, qualsiasi aria era meglio di quella del locale, pensò Elena, stringendosi nello scialle leggero.

Respirò profondamente ad occhi chiusi e cominciò ad avviarsi verso la macchina.

Ma non aveva voglia di tornare a casa.

Non aveva voglia di aprire la porta con circospezione, per non svegliare sua madre. Non aveva voglia di togliersi le scarpe appena entrata, per non dar fastidio a sua sorella che era ancora in piedi a studiare (già, di venerdì sera a mezzanotte inoltrata…). E nemmeno voleva stendersi sul suo lettino singolo con il copriletto a fiori, imbarazzante reliquia di qualche seduta di shopping compulsivo di sua madre. Da un po’ non riusciva più a dormirci bene, nonostante il cuscino e il materasso di prima qualità, nonostante il silenzio della casa. Così, prese a camminare verso la Piazza, sperando che l’atmosfera della movida le tirasse su il morale.

In fondo, sapeva bene che quel sonno stentato, quella voglia di niente che la assaliva sempre più spesso e il senso di insofferenza che la portava a continue discussioni con i familiari e il suo ragazzo, altro non erano che spie, allarmi che ormai era inutile o forse addirittura pericoloso ignorare.

Ormai metà delle sue compagne di classe o di università erano sposate o in procinto di farlo (e di queste un buon 40% aveva già un figlio, nato o in cantiere). Le altre erano in giro per il mondo a lavorare oppure erano quelle da tutti considerate “sfigate”, brutte o antipatiche – ma che da un punto di vista lavorativo avevano fatto le scarpe a tutti, quindi la cosa si poteva tradurre in semplice invidia.

E ad ogni partecipazione che le arrivava nella cassetta della posta, Elena si sentiva sprofondare un po’ di più. Era stanca di essere sempre “la testimone” (non firmante), l’amica, la damigella, la spettatrice: voleva essere protagonista, finalmente. E tuttavia si chiedeva se il suo non fosse semplicemente un complesso di inferiorità, o peggio una manifestazione di conformismo.

Non sapeva darsi una risposta. Sapeva solo che tutto questo bianco e queste bomboniere le mettevano addosso un senso di profonda tristezza. Come se quello fosse l’unico destino giusto e possibile per le ragazze della sua età. Che ironia. Nel XXI secolo andavano ancora tutte in isteria alla vista di un anello con solitario.

Elena sentiva di non poterne più, che le cose così com’erano non andavano più bene. Stava diventando adulta – la manifestazione più evidente di questo processo era non poter più usufruire dello sconto under 25 alle mostre, come diceva cercando di scherzare con gli amici – e le sembrava di essere ancora in attesa del vero inizio della sua vita, mentre all’apparenza tutti gli altri, semplicemente, vivevano la loro.

“Ehi!!”

Poco mancò che ci andasse a sbattere contro. Stringendo la borsetta tra le mani, era pronta a inveire contro la persona che le era venuta addosso, quando…

“Paolo?”

(to be continued…)

Una preghiera…

L’ebbrezza  dell’ “habemus Papam!” non è ancora del tutto svanita e già siamo sommersi di aneddoti, commenti, storie, immagini e previsioni riguardo a quello che sarà/dirà/farà il nuovo Vescovo di Roma, Papa Francesco.

A dirla tutta, non ci voleva poi molto per trovare una persona più “calorosa”, almeno da un punto di vista esteriore, del predecessore Ratzinger, uomo di grande cultura e sensibilità ma dallo scarsissimo “media appeal”, che non “arriva” direttamente ai fedeli spettatori – per dirla alla Simona Ventura.

Però è innegabile che i segnali di cambiamento ci sono, che sembrano sinceri, spontanei. Sono sincera, mi è stato subito simpatico, Papa Francesco. Sarà stato il bombardamento mediatico delle ultime settimane, ma mi sono ritrovata ad essere quasi impaziente, dal momento in cui ho sentito il suono delle campane a quello in cui il cardinal Tauran è uscito e ha pronunciato la frase fatidica. Anzi… al momento in cui è finalmente uscito sul balcone, quell’uomo vestito di bianco, ha salutato ed è restato fermo, immobile, a guardare la piazza… Abbiamo sospeso la riunione di scuola per udirlo e vederlo – o meglio, l’abbiamo iniziata al contrario, festeggiando con pane, salame, formaggio e vino rosso, assiepati attorno al computer della coordinatrice sintonizzato su Sky. E pure i più “mangiapreti” tra di noi sbirciavano e commentavano interessati. Perché è stato strano, in questi giorni, essere senza Governo e senza Papa, e riaverne almeno uno ha dato a tutti una sensazione di sollievo.

Ci ha conquistati subito, dicevo. Con un “Buonasera!” e due preghiere, che nessuno si sarebbe aspettato di udire da quel balcone. Ci è piaciuto, anche nei giorni successivi. Quindi è anche buona cosa attendere, senza lasciarsi andare prematuramente a espressioni magniloquenti ed entusiastiche. Ne abbiamo presi tanti, in questo modo, di granchi papali.

Però è bello pensare che stia avvenendo un cambiamento – un po’ come ha scherzato  l’altra sera.

E oggi ho trovato questo, in un articolo de Il Sole 24 ORE. La pubblico, perché anche se non fosse esattamente “sua”, è comunque un vademecum bellissimo – anche per chi, come me, è un po’ una pecora se non nera diciamo pezzata, nel gregge del Signore…

Una preghiera per ogni dito della mano
1. Il pollice è il dito a te più vicino. Comincia quindi col pregare per coloro che ti sono più vicini. Sono le persone di cui ci ricordiamo più facilmente. Pregare per i nostri cari è “un dolce obbligo”.

 2. Il dito successivo è l’indice. Prega per coloro che insegnano, educano e curano. Questa categoria comprende maestri, professori, medici e sacerdoti. Hanno bisogno di sostegno e saggezza per indicare agli altri la giusta direzione. Ricordali sempre nelle tue preghiere.

3. Il dito successivo è il più alto. Ci ricorda i nostri governanti. Prega per il presidente, i parlamentari, gli imprenditori e i dirigenti. Sono le persone che gestiscono il destino della nostra patria e guidano l’opinione pubblica… Hanno bisogno della guida di Dio.

4. Il quarto dito è l’anulare. Lascerà molti sorpresi, ma è questo il nostro dito più debole, come può confermare qualsiasi insegnante di pianoforte. È lì per ricordarci di pregare per i più deboli, per chi ha sfide da affrontare, per i malati. Hanno bisogno delle tue preghiere di giorno e di notte. Le preghiere per loro non saranno mai troppe. Ed è li per invitarci a pregare anche per le coppie sposate.

5. E per ultimo arriva il nostro dito mignolo, il più piccolo di tutti, come piccoli dobbiamo sentirci noi di fronte a Dio e al prossimo. Come dice la Bibbia, “gli ultimi saranno i primi”. Il dito mignolo ti ricorda di pregare per te stesso… Dopo che avrai pregato per tutti gli altri, sarà allora che potrai capire meglio quali sono le tue necessità guardandole dalla giusta prospettiva.

(Traduzione di Graziella Filipuzzi)

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-03-16/preghiera-ogni-dito-mano-194306.shtml?uuid=AbY2FoeH

 

Piove, governo nuovo…

Finalmente ci siamo. Dopo mesi in cui la politica ha invaso praticamente ogni minuto e conversazione. Anche se il tempo atmosferico fa da perfetto accompagnamento a questa ennesima manifestazione (illusoria?) di democrazia.Piove, smette, nevica, smette, nevischia, smette, un raggio di sole, ripiove, vento, smette, umido… un po’ mi sento rincuorata, finalmente un inverno più o meno come quelli nei miei ricordi di bambina. Nella vita ci vogliono conferme.

Ho pensato a lungo a come scrivere questo post. Ma è difficile fare una riflessione sull’attuale situazione politica senza ricadere nel qualunquismo di chi dice “ah, tanto sono tutti ladri!”.

Non sono molto fiduciosa, lo ammetto. Chi vincerà – se vincerà – avrà un compito abnorme davanti a sè: ricostruire, prima ancora dell’economia, la fiducia di un popolo nelle sue istituzioni. Adesso possiamo tranquillamente affermare che siamo a quota “meno mille” (per citare la risposta di mio fratello novenne quando gli chiesero quanto gli era piaciuto il mio saggio di chitarra). Non è possibile vivere in un paese dove dallo Stato ci si aspettano sempre e soltanto malversazioni e ingiustizie. Potremmo fare l’elenco di tutte le cose che non vanno, ma secondo me la cosa più triste e pericolosa (motore di molti altri mali) è la mancanza di regole chiare e conseguenze certe. Di regole ce ne sono fin troppe, ma si finisce sempre per trovare una scappatoia, una conciliazione, un patteggiamento, un “venirsi incontro”, un “lasciamo le cose come stanno senza muover puzze, che prima o poi si aggiusta tutto”. Che molte volte è semplicemente una manifestazione di buonsenso al cospetto di regolamenti iniqui, ma è una strada scivolosa perché alla fine si cercherà prima di tutto la scorciatoia, invece di ricorrervi come ultima ratio.

Siamo tanto esterofili, vogliamo “lammerica”, però ci limitiamo a comprare super SUV, smontare la sanità pubblica a vantaggio di quella privata e invocare la flessibilità nel mondo del lavoro ma non abbiamo il coraggio di importare dall’America le cose veramente positive – penso a certe politiche fiscali, alla severità con cui vengono punite le evasioni (famosi gangster sono andati in carcere per aver truffato il fisco, NON per altri delitti…), l’attenzione alla cultura, la partecipazione dei privati alle istituzioni culturali e così via.

O peggio, consideriamo con sufficienza i paesi dell’ex blocco delle repubbliche popolari dell’Europa dell’Est… senza sapere che per esempio l’Estonia è all’avanguardia sul fronte dell’informatizzazione dei servizi o che le istituzioni culturali sono di livello infinitamente superiore al nostro e sono sostenute dallo Stato (mentre ho sentito con le mie orecchie un amico politico deplorare il finanziamento pubblico ai teatri regionali, quando ci sono così tante altre cose da fare con quei soldi…).

Ma mi sto allontanando dal punto. E cioè, che, nonostante il futuro sia grigio e umido come questa giornata di febbraio, noi tutti abbiamo in DOVERE di uscire e andare a votare. Comunque si voti. Chiunque si voti. Poi ce la vedremo con la nostra coscienza, nei mesi e negli anni futuri. Chi non sceglie non può lamentarsi, chi non partecipa deve rimettersi alle decisioni della maggioranza, ed è fin troppo facile criticare qualcosa che ti è venuto addosso.Ancora non so chi voterò, lo ammetto. Ho cercato di informarmi, ma ho sentito molte belle parole, molte parole forti e manifestazioni al limite dell’isteria collettiva, ma poche “buone vibrazioni”, nessuno mi ha convito del fatto che una volta al governo farà (o perlomeno proverà a fare) quello che ha promesso in campagna elettorale.

Però non scegliere, come ho detto, è troppo facile. E pericoloso. Perché il popolino non guarda al di là del proprio naso, e finisce per scegliere Barabba.

Proviamo, almeno, ad evitarlo.

Vi lascio con una citazione di Bon Jovi, forse è un po’ ingenua, ma arriva al punto: “perché lo dobbiamo fare? perchè possiamo farlo”.

BECAUSE WE CAN

I don’t wanna be another wave in the ocean
I am a rock not just another grain of sand
I wanna be the one you run to when you need a shoulder
I ain’t a soldier but I’m here to take a stand
Because we can

She’s in the kitchen staring out the window
So tired of living life in black and white
Right now she’s missing those technicolor kisses
When he turns down the lights

Lately he’s feeling like a broken promise
In the mirror staring down his doubt
There’s only one thing in this world that he knows
He said forever and he’ll never let her down

I don’t wanna be another wave in the ocean
I am a rock not just another grain of sand
I wanna be the one you run to when you need a shoulder
I ain’t a soldier but I’m here to take a stand
Because we can

TV and takeout on the coffee table
Paper dishes, pour a glass of wine
Turn down the sound and move a little closer
And for the moment everything is alright

I don’t wanna be another wave in the ocean
I am a rock not just another grain of sand
I wanna be the one you run to when you need a shoulder
I ain’t a soldier but I’m here to take a stand

Because we can, our love can move a mountain
We can, if you believe in we
We can, just wrap your arms around me
We can, we can

I don’t wanna be another wave in the ocean
I am a rock not just another grain of sand
I wanna be the one you run to when you need a shoulder
I ain’t a soldier but I’m here to take a stand

I don’t wanna be another wave in the ocean
I am a rock not just another grain of sand
I wanna be the one you run to when you need a shoulder
I ain’t a soldier but I’m here to take a stand

Because we can, our love can move a mountain
We can, if you believe in we
We can, just wrap your arms around me
We can, we can
Because we can

E per fare due risate, sempre in tema…

Riserve

Riserva. Magnifico lemma della nostra bellissima lingua. Che può voler dire così tante cose che vi lascio il piacere di scorrere da voi tutte le definizioni che ci fornisce il Vocabolario Treccani. Spazio protetto, chiuso, privilegiato o disgraziato a seconda dei punti di vista, prerogativa esclusiva o saggia pratica di accumulo per la sopravvivenza… insomma, un mondo intero racchiuso in sette lettere.

Che definisce perfettamente il contenuto di questo accorato appello che mi è capitato di leggere poco fa su Repubblica:

Appello perché bimbi e bimbe fino a 8 anni siano liberi da schermi e computer nella scuola

Ora, essendo insegnante ho a che fare ogni giorno con bambini e ragazzi dai 6 ai 15 anni – e a settimane alterne ai 58… – e nel tempo non ho potuto fare a meno di pormi delle domande riguardo alle persone con cui ho occasione di lavorare. E’ un vero peccato, ma è proprio vero che senza volere ci scordiamo di come ci sentivamo nella nostra prima infanzia e adolescenza. Forse siamo stati “programmati” per questo, forse è solo un sovraccarico di informazioni che quindi smaltiamo con l’oblio, fatto sta che risulta abbastanza normale guardare i ragazzini e pensare “ma noi non eravamo certo così!”. Nel bene e nel male, ma più spesso ci compiacciamo pensando che, tutto considerato, noi eravamo migliori, più svegli, più intraprendenti, più seri, più educati e così via.

Non sono una psicologa né una sociologa, le mie sono riflessioni che prendono spunto esclusivamente dalla mia limitata esperienza e da quello che leggo o sento intorno a me. Però mi sento di sottoscrivere parola per parola l’appello del maestro Franco Lorenzoni.

Non perché voglia vedere al rogo o coperti di polvere e ruggine tutti i meravigliosi strumenti tecnologici che il progresso ci ha fornito e continuerà a produrre. Anche perché li utilizzo anche io, e parecchio. Ma perché riflettendoci mi sono convita del fatto che se oggi noi di 25 – 30 anni d’età possiamo sfruttare abbastanza bene queste risorse è perché abbiamo avuto la possibilità di imparare prima di tutto a usare le mani concretamente.

Ricordo che papà mi ha tormentata a lungo costringendomi a scrivere con la penna stilografica, insisteva a tal punto sulla qualità della calligrafia da arrivare (senza drammi ma con puntiglio) a strappare le pagine scritte male o pasticciate e farmele ricopiare. Per un paio d’anni ho odiato la stilo, che tra l’altro mi lasciava tutte le dita blu o nere. E poi pian piano ho imparato la bellezza del gesto, la precisione, la leggerezza e la velocità, tanto che adesso non uso nient’altro per scrivere, a parte la matita quando prendo appunti ai corsi.

Ma non è solo questione di calligrafia. Usare le mani, pasticciare, macchiare, disegnare, rompere anche, sono passi obbligati per sviluppare delle sensibilità che non riusciremo a surrogare in nessuna macchina, se prima non le avremo arricchite con esperienze reali.

Suonare con le tastiere virtuali dei tablet è tanto facile e divertente quanto fuorviante. Lì tutto si standardizza e diventa impersonale, non siamo noi a suonare, è la macchina cui diamo dei comandi, ma la bellezza del tocco, la delicatezza, l’espressività, la personalità di chi suona non vengono fuori in nessun modo. Ed è chiaro che poi, quando effettivamente i bambini cominciano a mettere le mani su uno strumento, si scontrano spesso con dei muri invalicabili. Perché è faticoso. Fisicamente, innanzitutto. Un tablet lo usi anche a letto da disteso, un pianoforte no. Neanche un flauto. E se parliamo della lettura delle note beh, l’ordine, la logica, anche la pedanteria e le contraddizioni della scrittura musicale alle volte restano un mistero, se non vengono avvicinate gradualmente e con pazienza. Senza parlare del fatto che per imparare a suonare uno strumento tanto da potersi divertire con esso ci vuole tempo e una pratica costante per anni. E pare che questo sia un pensiero estraneo ai ragazzi che cominciano a suonare. O viene tutto subito e facilmente (come un clic o una ditata sul touch screen) oppure si molla, provare e riprovare finché non viene non è una via che viene presa spontaneamente in considerazione.

La tecnologia ci fornisce strumenti che i nostri nonni e genitori non sognavano neppure. E tuttavia, se ci lasciamo affascinare dalle mille possibilità che abbiamo, rischiamo di perdere il nostro “centro”, che sono le nostre capacità e la nostra intelligenza, che si sviluppa soltanto tramite l’esperienza diretta e reiterata della realtà. Senza questa, neanche la macchina più potente potrà restituire un millesimo delle nostre potenzialità.